Nel leggere la raccolta poetica di Filippo Davoli “La luce, a volte” (Liberilibri, Macerata, 2016, con una nota di Massimo Raffaeli) si incontra spesso tra i suoi versi la parola “segreto”. Fermandosi ogni volta a rileggere il verso che la contiene viene da indagare quale sia il senso profondo di tale parola per l’autore. Che colore ha per il poeta, quale memoria porta dentro, quale storia nella parola “segreto”?

Sospendendo l’interrogativo, lasciandolo sullo sfondo senza un’indagine troppo analitica che rischia di appesantire la libertà di un verso, di sezionarlo fino ad ucciderlo, chi qui scrive non può non pensare al “segreto” se non insieme al suo doppio: “mistero”. E se il secondo termine, liberato dagli usi rimandanti all’occulto, è sempre particolarmente significativo perché legato alla profondità delle grandi questioni come la vita, l’uomo, il senso di questo mondo e la realtà di Dio, il primo termine resta legato a ciò che è negato, impedito, custodito con la gelosia che respinge.

I significati sono certo molto più sfumati e la divisione meno netta. Nel correggere l’asprezza di quanto scritto sopra si pensi anche alle parole delicate del Vangelo, riferimento ineludibile in Davoli, che nel parlare di Chi “vede nel segreto” certo richiama ad una più umile discrezione, reale pur se silenziosa in mezzo a troppo rumorose fanfaronate.

Tornando così alla dimensione del “segreto” più mite ed intimo, alla confidenza tra amici, a ciò che è celato in una casa dietro le cui mura spesso, passeggiando, riusciamo a cogliere solo l’alto dei soffitti offerti dallo scorcio delle finestre, viene in mente (sempre a chi scrive) il tema dei giardini segreti: piccole oasi di quiete riparate da alti muri. Nelle nostre città, precluse all’occhio dei curiosi, spesso si offrono solo ammiccando con la sommità della vegetazione che tracima. Cortili, patii, orti veri e propri. Non ne sappiamo quasi nulla di solito. Non ne abbiamo la chiave. Spesso sono antiche resistenze alla fame d’edificazione, a volte gabinetti antiquari di verde e reperti, a volte miniature di parchi frondosi. Quasi sempre giardini familiari.

Francesco Venezia a Gibellina (TP)

Un architetto colto come Francesco Venezia negli anni ’80 ha saputo indagare nuovamente il tema disegnando dei minuscoli paesaggi di cui far esperienza a Gibellina, in Sicilia. Piccoli giardini che oltre ad educare lo sguardo chiamando al silenzio, come solo i chiostri monastici forse riescono a fare. Invitano a guardare anche sopra l’orizzonte, in alto. Sopra il ritaglio di terra, lassù dove il segreto sembra svanire colto, poeticamente, dagli angeli raccontati da Wim Wenders o, molto più prosaicamente, dallo sguardo tecnologico onnipresente che tutto registra e moltiplica in un sovraccumulo di informazioni: l’occhio di Google Earth che mette a nudo ogni nostra città e che dal cielo rapisce l’immagine di ogni fazzoletto di terra.

Ma se, a terra, tornassimo difesi dentro questi piccoli giardini segreti e, in pace, pensassimo che in realtà da lì ci potremmo davvero riappropriare dall’ampiezza del cielo? Se non fossimo noi i guardati ma, nel segreto, guardassimo? Se trovassimo il giusto silenzio, il giusto tempo per usare i nostri di occhi e non delegassimo lo sguardo a migliaia di artifici e schermi, forse potremmo vedere così:

Jorge Luis Borges

Con la sera

si stancarono i due o tre colori del patio.

Questa notte la luna, il chiaro cerchio, non domina il suo spazio,

Patio, cielo incanalato.

Il patio è il declivio

sul quale straripa il cielo nella casa.

Serena

l’eternità attende il crocevia delle stelle.

E’ bello vivere con l’amicizia oscura

di un atrio, di una pergola e di una cisterna.

J.L. Borges, Un patio (da Fervore di Buenos Aires, 1923)

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