Che la Contemporaneità sia l’epoca della multiformità e della complessità che si muove dall’esser inebriante all’esser straniante in un attimo lo sappiamo dalla percezione spicciola, da analisi più attente ma lo rileviamo anche attraverso la lente dell’immaginario distopico.

Forse è sempre stato così, in ogni contemporaneità, quando non si ha il giusto tempo per una distanza critica sulle cose. Magari la pensavano ugualmente a Babilonia o a Roma. E’ certo però che la velocità dei cambiamenti attuali rende assolutamente originale questo tempo dove tra una generazione e l’altra il contesto sociale e tecnologico lo si registra profondamente mutato.

A “peggiorare” la situazione ora ci si mette anche l’AI o IA (Intelligenza artificiale), che dir si voglia. Fintanto che il problema degli alieni, ultimamente sempre più presente nei giornali, non prende sufficiente spazio per creare turbamento la macchina è la minaccia più grossa. Strumento incredibilmente potente l’AI crea turbamento perché non fa della verità (non impelaghiamoci ora nella profonda questione del Quid est veritas) un criterio significativo. Non se ne fa un problema nelle sue operazioni di smontaggio e rimontaggio dei dati. Peggiora il nostro orientamento perché ora arriva a mettere in dubbio le fonti da cui troviamo informazioni e notizie. Il tema delle Fake news è sulla cresta dell’onda da almeno cinque o sei anni. Tutto potrebbe essere magistralmente artefatto o intellifatto (Deo gratias se ora finalmente capiremo che serve un minimo di senso critico!). Giusto, sbagliato, corretto, falso? Non è rilevante.

Ci siamo accorti, o ci hanno detto, che l’AI può sbagliare ed in ciò troviamo grande soddisfazione. Godiamo nel vederla incespicare. La mettiamo alla prova severamente attenti a coglierla in fallo invidiosi o anaffettivi come mai sarebbero dei genitori che registrano anche nella minima lallazione un passo di sviluppo del genio del proprio bambino. Dalla macchina ci attendiamo la certezza, mai l’errore. In noi che invece viviamo naturalmente nella limitatezza e nell’errore, al punto che anche nei nostri geni questo ci ha portato ad evolverci o a perire, poniamo attenzione a dargli dignità e conferirgli anche potere creativo.

L’antropologo Franco La Cecla ha scritto anni fa un libro fortunato, Il malinteso, che può essere visto in coppia con il suo forse più noto precedente Perdersi. In Perdersi La Cecla riprendeva concetti già espressi nel Situazionismo mostrando come la perdita di orientamento e lo smarrirsi nello spazio apra alla possibilità di conoscere davvero. Ne Il malinteso (e ricordiamoci dell’ambivalenza del termine errare) ci aiuta a vedere l’incomprensione come quello spazio di confine, dove c’è ambiguità di significato, in cui è possibile un contatto autentico tra interlocutori e culture. Il malinteso potrebbe essere uno spazio per una riflessione originale a partire da un dato colto solo parzialmente o equivocato. Un avvio di un pensiero e di una teoria originale come possono essere anche i famosi castelli in aria che a volte in ambito sentimentale si costruiscono a partire da presunti segni colti e sovrainterpretati.

Recentemente un articolo di Cody Kommers, ricercatore di psicologia sociale e scienze cognitive, sulla rivista Nautilus (riportata in italiano sul numero 1517 del 23/06/2023 de Internazionale) fa un quadro ampio del rapporto tra la fallacità della memoria e la creatività. L’articolo prende spunto da un racconto di Borges, il Funes o della memoria, in cui il protagonista è capace di ricordare ogni cosa concreta incontri ma non riesce a giungere ai concetti generali. Kommers ci spiega, anche attraverso la letteratura scientifica, come la lacuna della memoria e l’incapacità del nostro cervello di fotografare esattamente apra allo spazio di libertà della creazione. Si crea a partire da un bagaglio di informazioni che comunque la nostra memoria conserva (come lo stesso Borges che era una biblioteca vivente) ma la dimenticanza, la parte mancante permette al nostro cervello di interpolare con libertà, di astrarre, di creare una sua spiegazione per tenere insieme gli altri tasselli del ricordo.

Torniamo quindi all’AI che, in fondo, non rimescola quello che nella sua memoria? La sua memoria però non sbaglia. Potremo invece noi farci forza della nostra fallibilità? Inizia forse per le nostre teste un tempo in cui abbiamo ancora maggiore necessità di mostrare un di più che non sia la semplice replica di ciò che apprendiamo. Il genio non è per tutti ma sicuramente la coscienza critica sarà sempre più indispensabile per muoversi liberi senza impantanarsi nei meccanismi degli algoritmi che, abbiamo visto, riescono a controllare ed orientare molto bene le nostre abitudini per sfruttarle commercialmente (o politicamente).

Big Data e AI uscendo dai limitati canali di social e cookie in rete potranno con le loro parametrizzazioni portare un domani anche all’evoluzione degli spazi reali, oltre che virtuali, in cui viviamo con degli spazi “profilati” (si legga Marco Vannucci, Così IA e Big Data cambiano l’esperienza della città, su Il Foglio Arte del 25/08/2023) replicando quella tendenza dei social a fornire tutto a nostra immagine rafforzando convinzioni e pregiudizi invece di di lasciarci muovere nell’ambigua libertà delle care e vecchie tipologie di rossiana memoria (cfr. Aldo Rossi, L’architettura della città), aperte ad essere vissute diversamente ad essere interpretate, usate e riusate e magari mal comprese? La sfida alla libertà è aperta. L’eterna questione circa la neutralità etica di uno strumento e la sua possibilità di plasmarci si ripresenta costantemente.

Tornando a quel che si diceva in apertura ricordiamo che la letteratura fantascientifica da tempo ci precede negli ipotetici risultati del fluire delle cose.

Invitiamo alla lettura in conclusione dell’articolo di Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco su Le Lettura del Corriere della Sera nr. 614 del 03/09/2023 in cui la prefigurazione dello svilimento delle nostre capacità creative perché delegate alla macchina viene proposto con il racconto Il sole nudo (1956) di Isaac Asimov e i romanzi Il cacciatore di androidi (1968) di Philip K. Dick,noto perché da esso è stato tratto Blade Runner, e Le argentee teste d’uovo (1961) di Fritz Leiber.

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