Questo breve articolo parte dal titolo di un libro di Martin Pollack, Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa, pubblicato da Keller nel 2017. Parla di un libro non letto, scoperto casualmente solo da pochi attimi. Nessun pudore nel farlo perché, sinceramente, qualcuno di voi pensa davvero che chi anima i dibattiti culturali abbia letto tutti i libri che cita? Qui si andrà avanti, per di più, a parlare del tema del libro citato proseguendo a citarne altri. Alcuni letti e altri no ma che chi scrive ha già messo nella lista dei prossimi acquisti. Libri come soli indizi e brandelli di mappe, che si addensano attorno questa regione irreale dell’Europa, evaporata. La Galizia, quella orientale, vive dell’ambiguità del nome. Porta lo stesso nome della regione atlantica della Spagna che segna l’arrivo del pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, santuario a pochi km dall’ultimo brandello d’Europa, verso ovest, sull’Atlantico, il finis terrae. Quella orientale è terra interna lontana dal mare, terra di contese, spostamenti di confini, mescolanze di etnie, terra di diaspora e poi terra di fuga di fronte alla furia che lì si è abbattuta nel secolo scorso.

I libri ci danno testimonianza amara di cosa fu quella regione prima che una parte della sua popolazione venisse cancellata dalla guerra nazista. E non è per nostalgia che vale la pena leggere quei libri, seppur il ritrovare oggi tracce ebraiche e costumi dall’aspetto anacronistico, anche pittoresco e folkloristico dello chassidismo a New York o nel ghetto di Venezia, evidente nei grandi cappelli neri dei Chabab-Lubavitch (gruppo originario in realtà della Bielorussia) o degli altri gruppi originari dell’Europa centrale e orientale, ci dia la sensazione di poter toccare e avvicinare un mondo lontano e pre-moderno con il fascino del bel tempo andato che sempre è in agguato. Chassidim o Amish delle lontane fattorie della Pennsylvania sembrerebbe cambiar poco se non ci fosse dietro il peso della Storia. Gli abiti neri e i grandi cappelli di pelo ci mostrano scene da un passato che fu quando “si stava meglio”, ingenuo e pacificante se non pensassimo che coloro che li indossano sono tizzoni sfuggiti da un rogo. Ma guai a pensare che le popolazioni che abitavano un tempo tra Polonia e Ucraina, esigue per numero ma rilevanti per attività, fossero sacche di resistenza alla modernità come tutto quel mondo ebraico orientale e mitteleuropeo che è uno dei motori della modernità (si veda Sergio Quinzio, Le radici ebraiche del moderno, Adelphi).

Soprattutto i libri ci permettono di raccogliere le tracce. Dobbiamo prendere in mano il Roth di Ebrei Erranti, l’amaro Elie Wiesel che è passato attraverso il fuoco, il Martin Buber attento cercatore della tradizione e con loro Israel e Isaac Singer con le loro storie familiari yiddish degli Ashkenazi e dei Karnowski che dalla Polonia sono arrivate oltreoceano. Dobbiamo vedere i film come il bellissimo e tragicominco Train de vie di Radu Mihaileanu che tra riso e lacrime ci porta dentro la vita di uno shtetl per mostrarci una popolazione marginale che lì come altrove nella sua più ampia storia ha vissuto sia in pace che scossa mentre la grande Storia dei grandi imperi le passava sopra. Vetri marini lavorati e anche trascinati via dalle onde dai tempi dell’Egitto di Faraone, come lo chiama la Genesi senza specificarne il nome, alla cattività di Babilonia e l’evento salvifico di Ciro di Persia fino alla più vicina distruzione portata dal più “giovane” Impero Romano. Una storia che poi incrocia anche la doppia monarchia austro-ungarica e che infine ha resistito con ferite indelebili al passaggio dell’ultimo e più tronfio impero, sedicente millenario, che la Storia ci ha voluto, per grazia, far cadere ai primi nefandi passi.

Lascia un commento

In voga