Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse.”

(Zibaldone 1789, 25 settembre 1821)

Antico, passato, il bel tempo che fu sono materia di poesia ma anche di illusione, che poi è lo stesso materia di riflessione poetica e confusione poi è parola che davvero coglie bene nel segno, oggi. Recanati è in questo senso davvero città della poesia: la torre del passero solitario può essere quella del campanile sella chiesa di Sant’Agostino così come la sobria e decorosa torre dell’acquedotto lì ad un passo.

Il tempo, quello ampio trascorso, di bello ha che confonde. Quello immediato, tirato sempre in ballo perché sfuggente e scarso, frazionato e frenetico, non lascia invece il lusso di districare il vero dal falso. Nel perdere contezza a volte addolcisce e riappacifica anche il presente così che la città oggi onora le glorie letterarie del suo poeta dimenticando l’acredine che questi le portava. Per inciso, forse avrebbe più meriti civici di Giacomo suo padre Monaldo, prodigio maggiore del figlio, ebbe a dire Carlo Bo, nel raccogliere, tra l’altro, una biblioteca vasta ed impensabile per un borgo della provincia pontificia. Monaldo era uomo certamente di minor sensibilità ma prosaicamente ben saldo all’interno di una tradizione di medietà illuminata che le Marche fanno fatica a non lasciar dissolvere.

Se oggi dal natio borgo selvatico si scende verso la valle del Potenza, lungo lo stesso percorso che probabilmente Giacomo fece nel 1822 andando verso Roma per il suo primo viaggio, si va incontro, entro la cornice della dolce collina senza asprezze, alle zone che da agricole si son fatte manifatturiere. Siamo nella direzione della località di Fontenoce. Incontriamo un piccolo “distretto signorile”, quello che un tempo poteva essere un felice buen retiro per le classi agiate. Lungo la strada troviamo a destra e a sinistra almeno tre ingressi segnati da pregiati propilei in laterizio che invitano ad internarsi. Si va nelle forme da esili manufatti neoclassici a gonfie colonne al limite della bottitudine. In fondo ai viali ecco le fabbriche, come le chiamerebbe Palladio, a cui sarebbe bello poter accedere in un circuito di visita. Incontriamo Villino Fede, Villa San Leopardo con vicina la piccola chiesa parrocchiale, Villa Teja ed il Mausoleo di Carlo Leopardi, Villa Koch.

La prima che troviamo, il villino Fede, piccolo villino di caccia in alto rispetto alla strada vanta una bella, e rarissima per queste terre, loggia tripartita da due colonne tuscaniche. La casa è abitata e ben conservata e mantiene l’originaria alberatura di accesso.

Proseguendo a valle troviamo il complesso di San Leopardo, ancor oggi della famiglia del conte Giacomo, con la villa principale e altri fabbricati connessi. Luogo ricordato negli scritti di Leopardi come ameno, forse scampolo di terra in cui la natura in quiete gli appariva meno ferina. Dalla stessa parte ma più internata c’è Villa Teja, costruita da Carlo, fratello del poeta. Prende il nome da sua moglie Teresa Teja che dedicò poi al defunto marito un mausoleo circolare libero sulla campagna, dal momento che dissidi familiari vietarono la sua sepoltura presso San Leopardo. La villa fu poi acquistata dalla famiglia Koch che la acquisì dagli agostiniani, i quali la ereditarono dalla vedova Leopardi. Dall’altra parte della strada, molto prossima, si trova Villa Koch, la proprietà principale della famiglia, tenutaria anche di una piccola fornace nelle vicinanze. Villa amena per il riposo di quel Gaetano Koch che era uno degli architetti più in vista nella Roma post unitaria, autore del palazzo della Banca d’Italia e di altri grandi complessi romani in quello stile rinascimentale che si definisce umbertino, direttore dei lavori del Vittoriano dopo la morte del suo progettista, Giuseppe Sacconi, marchigiano adottato da Roma.

In questa panoramica del piccolo e non sufficientemente noto complesso recanatese è stata omessa una villa ormai in rovina. Poche sono le informazioni facilmente reperibili su di essa e quindi molto sarebbe da ricercare. Nella cartografia dell’IGM è descritta come Palazzo Tomassini. Godeva un tempo di una buona posizione, sopraelevata su San Leopardo, dello stesso medesimo stile neoclassico delle altre ville dell’intorno e segnalata da più eleganti e minuti propilei. Se si può concedere qui ignoranza e superficialità, da una ricerca su internet i Tomassini sono investiti tra gli altri titoli anche di quello di conti di Montelupone, San Leopardo, ecc. e per mirabolanti intrecci araldici incrociano rapporti con i Leopardi di Recanati, i Tomasi di Lampedusa e, per cerchi ancora più larghi, con tutte le più disparate nobiltà d’Italia.

La casa oggi è erosa da una fabbrica che verso la vecchia “fabbrica”, in senso palladiano, non ha osservato molto rispetto. E’ simbolicamente un segno evidente della trasformazione del secondo dopoguera. Una nuova famiglia ha preso possesso del territorio, non più agricolo. Non è più il tempo della terra, non degli ortaggi e del mais ma del cemento e della plastica. La fabbrica si espande dentro l’idillio rurale. E va bene, si direbbe, che “La bellezza salverà il mondo” ma anche, si potrà rispondere, “primum vivere deinde philosophari” che poi in effetti, portando all’estremo il discorso, il vecchio presidente di quella fabbrica durante l’emergenza Covid lo disse chiaro e tondo: qualcuno morirà, pazienza, ma noi dobbiamo lavorare! Emergenza Covid che tra l’altro ha rilanciato molto in chiacchiere e vaneggi la poetica del borgo dove viver sereni, come luogo del futuro, di un nuovo vecchio futuro, dove lavorare, essere in pace con la natura, guadagnare e filosofare, come sostiene oggi un noto imprenditore tessile umbro. Oggi borgo beato prima per il poeta asfissiante.

E a proposito di asfissia torniamo a dire che la fabbrica ha strangolato la villa. Ha distrutto l’assialità il suo viale alberato, l’ha chiusa in un ritaglio di terra in attesa che le erbe infestanti la nascondano. L’economia contro le vestigia della vecchia nobiltà, niente di più gattopardiano per i Tomassini, imparentati in antico, pare, con i Tomasidi Lampedusa, dicevamo. Palazzo Tomassini è stato chiuso su tutti i lati come è accaduto alla villa neoclassica che Ireneo Aleandri si regalò appena fuori Macerata, dove realizzò lo Sferisterio, per scorgere i Sibillini ed il Gran Sasso, soffocata dagli anni settanta da alte palazzine che hanno eroso il suo panoramico parco lasciandole una striminzita corte.

Ma con la bellezza amena qualcuno ancor oggi pare che voglia continuare a vivere; con una bellezza senza tempo, anzi di un tempo bello quando si stava meglio quando si stava peggio; dove, si lavorava tanto ma la domenica si stava in pace col vestito della festa, tutti alla messa, magari con gli uomini dentro la chiesa giusto per l’ascolto del Vangelo o per la Comunione. Era bei tempi quelli in cui le famiglie erano unite e con sani valori e si gioiva delle piccole cose. E quindi ecco spuntare poco più a valle, in contrada S. Pietro, un bel nuovo borghetto rurale in costruzione, con tante belle piccole casette in mattoni, il caro vecchio mattone, e svettanti piccoli falsi campanili a vela senza campane, sotto cui quindi niente messa da celebrare.

Si fuggiva il borgo a Recanati un tempo e ora è sempre lì che si ritorna. Ma si può davvero tornarvi?

Diceva Leopardi che le parole lontano (in senso geografico e temporale), antico e simili sono piacevoli ma nella nostra nostalgia sentimentalmente superficiale non ci evocano idee vaste ed indefinite, confuse sì, molto confuse!

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