In giornate come quelle che si avvicinano forse è davvero sano il baluginare di un dubbio sulla placida ritualità della memoria. La tradizione ebraica è sufficientemente attrezzata a contenere gli opposti nella discussione senza scadere nella polemica a cui quest’età astiosa ci ha abituato. Ne saremo tutti capaci? Chissà se la settimana ed il prossimo sabato passeranno senza parole indegne?

Va premesso che la Giornata della Memoria fissata per il 27 Gennaio non coincide con Yom HaShoah, giornata del ricordo in Israele fissata nel ventisettesimo giorno di Nissan del calendario ebraico (quest’anno il 5 maggio del calendario gregoriano).

Quello che potrebbe essere un alto e meritevole segno di coscienza come l’istituzione del Giorno della Memoria nel mondo ed in Italia, indiscutibile, si presta ad essere accolto con visioni diverse. In una tradizione di pensiero antidolatrica come quella ebraica non possono non animare confronti di pensiero anche i temi all’apparenza intoccabili. Non può essere esente da distinguo il Giorno della Memoria così come non lo è mai stata persino la fondazione dello Stato d’Israele. 

Si spalancano abissi fra un rigoroso talmudista e un chassid, fra un ebreo occidentale assimilato e uno yemenita o un falascià, fra un ebreo della diaspora e un israeliano, fra rabbaniti e caraiti, fra uno che attende ardentemente il Messia e un maestro della halakhah, tra un “falco” e un ultraortodosso che manifesta innalzando il cartello “il sionismo è nazismo”, fra i pionieri di appena ieri e gli autori israeliani di oggi come Amos Oz, che vede Israele come “un cadavere al quale continuano a crescere per un po’ le unghie e i capelli.

Sergio Quinzio, Le radici ebraiche del moderno, 1990. 

Dieci anni fa Elena Loewenthal scrisse Contro il giorno della memoria, e non è la sola a sollevare dubbi o avversare la ricorrenza. Con lei, tra gli altri, c’è l’eminente studioso di ermeneutica biblica Haim Baharier, figlio di reduci di Auschwitz.

E’ onestamente faticoso meditare i pro e i contro dell’istituzione di una giornata come questa. Arduo perché la statuizione di un giorno ufficiale per decreto è qualcosa di lieve rispetto alla maturazione di una memoria. L’idea stessa della memoria e del suo senso si apre verso una riflessione profonda che raggiunge il nucleo della storia dell’ebraismo e il precetto del ricordare (Zakhor) sin dall’uscita dall’Egitto. Se da una parte quindi è in dubbio l’efficacia di una celebrazione pubblica dall’altra vi è la necessità e l’imperativo. Raffaella Di Castro nel saggio Salvare la memoria dalla sua catastrofica trasmissione: Benjamin e la Shoah (2009) indaga con il filosofo tedesco il fondamento teorico del problema urgente di trasmettere la memoria della Shoah ora che i testimoni diretti stanno ormai sparendo.

Alla giusta problematizzazione del tema della memoria della Shoah ci può essere la reazione di chi trancia queste riflessioni con un: “Se neanche questo gli sta bene allora…” ad esprimere il latente spirito di antigiudaismo che tarda a sparire e che purtroppo torna a dover essere motivo racconto stridente. E’ recentissimo il libro di Nathania Zevi Il nemico ideale che continua ad interrogarsi sulla simpatia ideale che può essere rivolta alla figura dell’ebreo vittima, cristallizzata nelle immagini tragiche dei campi, ma non allo stesso modo riconosciuta a chi è oggi presente in carne e ossa. 

Chi scrive cerca di muoversi incerto e senza parole ultime attorno al tema della memoria e del senso della storia e di Quella storia, questioni nella cui profondità è difficile trovare parole definitive se non supportati da una provvidenziale metafisica a cui aggrapparsi.

Il più che si può fare è provare a navigare tra alcune letture, come si sta facendo d’altra parte. Seppur ostica è pertinente quella di Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica. L’introduzione di Harold Bloom, prendendo a sua volta parole in prestito da Leo Strauss, pone subito senza sostarvi a lungo una questione centrale e sulla quale sarebbe interessante soffermarsi: quella della natura del popolo ebraico come «popolo eletto almeno nel senso che la questione ebraica è il simbolo più evidente della questione umana». A questa legherei la domanda sul chi è oggetto o soggetto della Giornata della Memoria. A chi serve, a chi la istituisce o a chi ne è oggetto? E’ riconoscimento di un dramma o monito, antidoto a nuovi accadimenti?

Tutti conoscono la celebre citazione spesso erroneamente assegnata a Brecht:

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare

Questo testo che, oltre ad essere evocativo di una comunanza di destino di ogni uomo, è anche monito al non considerarsi mai al sicuro, pacificamente stabili nel privilegio della serenità, soprattutto in questi ultimi venti anni di guerre locali (un locale che è sempre altrove). E’ espressione di un pensiero anche egoistico, se vogliamo.

Per quanto possano divergere le posizioni sulla necessità del ricordo o il diritto di dimenticare la catastrofe (Shoah) una cosa resta unica e assolutamente ferma: accadde!

Molti della prima generazione preferirono non parlarne. Le generazioni di oggi devono contemplare, vedere e non volgere le spalle al passato. Le spalle semmai vanno rivolte altrove:

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Walter Benjamin, Tesi della filosofia della storia, Tesi IX

Così, con poesia e smarrimento, guarda indietro l’Angelo di Walter Benjamin. Avanzare è camminare con gli occhi al passato perché «è noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torà e la preghiera li istruiscono invece nella memoria. Ciò li liberava dal fascino del futuro, a cui soggiacciono quelli che cercano informazioni presso gli indovini» (Tesi XVIII).

Per chi ha fede, poi, c’è da confidare in altre spalle. Nell’Esodo al capitolo 33 vi sono quelle del Signore (Adonai). Egli procede in avanti e Mosé può vedere solo le sue spalle, o meglio quelle della sua Gloria (Kavod). La Kavod la si può tentare di cogliere nelle spalle, nella storia accaduta, in ciò che non è evanescente ma pesante, concreto e lì «accendere nel passato la favilla della speranza» (Tesi VI).

Così dalla liberazione, dalla Pesach, al momento in cui Israele riceva la Torah (Shavuot), fondando la sua identità, la ritualità ebraica della conta dell’Omer segna i giorni passati e non quelli a venire. Gli occhi indietro, ai passi fatti con fatica, sono speranza in quelli da fare in avanti.

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