
Nel libro Non è facile essere ebreo. L’ebraismo spiegato ai non ebrei edito da La Nave di Teseo, Riccardo Calimani riporta un apologo di Isaac Deutscher circa l’essenza del conflitto israelo-palestinese:
Un uomo si trovò a dover saltare dall’ultimo piano di un palazzo in fiamme nel quale erano già morti molti suoi famigliari. Riuscì a salvarsi; ma cadendo andò a finire su una persona che se ne stava giù nella via, spezzandogli le braccia e le gambe. L’uomo che era saltato dall’edificio non aveva avuto scelta; e ciò nonostante, la persona che ebbe gli arti spezzati vide in lui la causa della sua sfortuna. Se entrambi si fossero comportati con raziocinio, non sarebbero diventati nemici.
A questo racconto amaro segue quello dolce di un sogno dello stesso Calimani in cui si vede l’avanzare di una pace inesorabile, messianica, con la notizia folle, addirittura, di un David Grossman incaricato di formare il governo di Israele. Fantasia questa a cui sarebbe bello appigliarsi. L’utopia del filosofo saggio, del pensatore lucido e sensibile a guidare lo stato con una parola diversa da quella politica per sciogliere due sventure legate insieme. Sventure che hanno di fronte la via della pace o la via dello scontro, non altro.
Con un tempismo che sembra essere quella di un libro avido di attualità è appena stato pubblicato, a cura di Francesca Gorgoni, il libro dall’editore Portatori d’acqua [una realtà preziosa che certo non vive di sensazionalismo] Mahmud Darwush, Con la lingua dell’altro: un’intervista del 1996, o meglio un dialogo tra il poeta palestinese, autore della Dichiarazione d’indipendenza palestinese, e Helit Yeshurun, poetessa israeliana. L’intervista ha il tono dell’incontro intimo e sincero che si scalda nel campo comune della poesia, una patria diversa e accogliente per ambedue dove forse scoprire che «tutti su questo bel pianeta siamo vicini di casa, esiliati, tutti percorriamo lo stesso umano destino, e ciò che ci accomuna è il bisogno di raccontare questo esilio.»
Le parole che conducono all’intervista scritte da Francesca Gorgoni sono illuminanti. Ci fanno capire come il luogo del dialogo, del convivere dei due popoli in Palestina/Terra d’Israele, sia già possibile da coltivare nella lingua, nella poesia, il cui linguaggio specifico trova affinità, fraternità si potrebbe dire, nell’ebraico e nell’arabo. Ci basti questa suggestione: la parola usata per dire “verso” in arabo baīt ed in ebraico bayt in entrambe le lingue ha significa “casa”.
Portatori d’acqua torna a far parlare quei luoghi a cui oggi guardiamo intimoriti come con grande merito ha fatto in passato con la pubblicazione del libro di poesie di Avraham Ben Yitzhak, abitante della tradizione poetica ebraica che parla ancora la lingua della Tanakh, dei Salmi e del Cantico dei Cantici. Poeta che in una della sue composizioni più note evoca beatitudini come fece duemila anni fa un uomo nato in Galilea. Beatitudini che tornano nei versi nella discepola di Ben Yitzhak, Lea Goldberg, la cui raccolta più importante Lampo all’alba, è stata pubblicata finalmente da Giuntina nel 2022,la stessa poetessa che nel proprio diario scrive «in tempi di guerra non solo è concesso al poeta di scrivere poesie d’amore, ma ha il dovere di farlo.»



Ragioni, torti, tutto molto difficile da districare. Poetare è fuggire? E’ vagheggiare, volare troppo in alto per evadere? Come ci confessa Darwish a volte la poesia è così occupata dalla realtà che bisogna salvarla dallo scorrere del quotidiano. Può farci gustare forse quel progetto di Shalom/Salām del grande creatore di cui il poeta è ombra.




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