All’avvio la lettura dell’opera completa conferma subito un’immagine fissa di Borges. Borges è un anziano signore seduto in poltrona con in mano il suo bastone da passeggio e gli occhi vaghi che si perdono tra una realtà vicina ed un oltre frammisto di fantasia e memoria.
Chi direbbe che l’autore di Fervore di Buenos Aires sia un ragazzo di ventiquattro anni? Chi scrive ha già in sé una profondità di memoria di una vita intera. Ha già maturato il ricordo di tempi che furono e la loro nostalgia.
A chi avesse la tentazione di concludere che ad inizi Novecento si era già uomini maturi e adulti a vent’anni, diversamente da oggi, si potrebbe suggerire una diversa e inaspettata lettura seppur da altri luoghi. Zweig ne Il mondo di ieri ci racconta di un’ Austria di inizio secolo insensibile al riconoscimento delle qualità e del valore delle giovani generazioni, una società forse gerontocratica come quella di questo inizio di anni ‘2000. Un’epoca quella (o questa?) in cui il giovane medico per avere autorevolezza non poteva non farsi crescere voluminosi baffi dietro cui guadagnare considerazione. Il giovane Borges era invece imberbe e dai lineamenti gentili. Un viso pulito, diremmo, che però con manierismi e arte egli segna con strane rughe, ben più di quelle che il suo tempo avrebbe potuto dargli. Rughe poetiche, letterarie. Non sono però suoi segni. Sono i segni di altri, di tante pagine lette e mandate a mente. Tracce che hanno già cominciato a scavare i tratti del suo volto perché, se si può accogliere un salto lungo fino alla fine di questa storia, come egli dirà nell’epilogo de L’artefice del 1960:
Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.
Borges inizia a evocare quel volto maturo che già immaginava. Quel volto con al centro gli occhi segnati dalla cecità progressiva che per generazioni condannò i Borges. In Fervore di Buenos Aires evoca i luoghi della sua infanzia e delle fondazione reale e viva della sua città. Il suo angolo di mondo da cui osservare e pensare. Come disse Jorge Mario Bergoglio dalla periferia, “dalla fine del mondo”. Defilato ed eccentrico. Il contrario di quella Vienna da cui ci parlava Zweig.
La critica letteraria è cosa seria e pontificare sulla qualità dei versi non compete a queste righe, umili e dimesse. Qui si possono solo affondare gli occhi nelle pagine che Borges ha lasciato e ritrarli come quando si rialzano le mani affondate nella sabbia e qualcosa rimane nel rozzo setaccio delle dita. Una conchiglia, un legnetto? [Ritroveremo molto più avanti questa sabbia.] Lettore poco attento quale sono trattengo poco ma quel poco occorrerebbe segnarselo. Ecco allora in tutta la raccolta del 1923, esattamente centouno anni fa, tre poesie: Il Sur, Un patio, Assenza.
Il Sur
Da uno dei tuoi cortili aver guardato
le antiche stelle,
dalla panchina dell’ombra aver guardato
quelle luci disperse
che la mia ignoranza non ha imparato a nominare
né a ordinare in costellazioni,
aver sentito il cerchio dell’acqua
nella segreta cisterna,
l’odore del gelsomino e della madreselva,
il silenzio dell’uccello addormentato,
l’arco dell’androne, l’umidità
– queste cose, forse, sono la poesia.
Un patio
Con la sera
si fiaccarono i due o tre colori del pàtio.
La gran franchezza della luna piena
più non esalta il suo cielo abituale.
Pàtio, inalveato firmamento.
È il patio la pendice
per cui straripa fino in casa il cielo.
Serena
l’eternità si accampa a un crocicchio di stelle.
È buono vivere nel sodalizio arcano
di un atrio, di una pergola e di un pozzo.
Le due poesie dicono quasi la stessa cosa, parlano delle stesse sensazioni. Aprono alla quiete della contemplazione placida e pacata della sera. Troviamo la luna, il cielo, le stelle, l’acqua, cioè tutto il materiale di sempre per dire il sentire ampio, il tempo, lo sguardo largo tra la terra ed il cielo, attraverso un patio, un cortile, un ritaglio di terra che come il tempio è trasposizione del ritaglio di cielo. Ad un giovane di ventiquattro anni si affaccia sul lembo del cielo che si scopre dal patio, o meglio “la pendice per cui straripa fino in casa il cielo”, l’eternità. Più o meno alla stessa età in cui un ragazzo vissuto centouno anni prima dal giardino cintato di un palazzo signorile guardava alla luna e sedeva e mirava fingendo interminati spazi e sovrumani silenzi (si perdoni qui la banalità delle associazioni dovuta alla pochezza delle letture).
La terza poesia rimasta tra le dita va tenuta a mente per i momenti di scoramento, di pene e di strazi amorosi, se si è ancora nell’età in cui si avvertono.
Assenza
Dovrò di nuovo erigere la vasta vita,
specchio di te ancora:
dovrò ricostruirla ogni mattina.
Ora che non ci sei,
quanti luoghi son diventati vani
e senza senso, uguali
a lampade di giorno.
Sere che ti hanno accolto come nicchie,
musiche dove trovavo te ad attendermi,
parole di quel tempo,
dovrò distruggervi con queste mani.
In quale baratro potrò celare l’anima
perché non veda la tua assenza,
fulgida come un sole orribile
che non tramonta mai, spietata, eterna?
La tua assenza mi sta attorno
come la corda al collo,
come il mare a chi affoga.
Ora, chi non indicherebbe questa poesia come l’universale racconto della sofferenza di un abbandono, di una perdita di senso e di scoloritura deprimente del tempo? Un amato o un’amata partita, un fallimento, una condanna di solitudine. Ma anche, in senso più lato, una separazione da un luogo e uno sradicamento.
Da Fervore di Buenos Aires sono uscite due poesie che dilatano i sensi ed il cuore ed una che stringe il petto. Forse il movimento di un respiro.





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