Nella prosecuzione della lettura dell’opera di Borges ecco Discussione (1932). Si tratta di una raccolta di saggi giovanili che mette subito in difficoltà perché (quante volte dovrà ancora accedere!) non si sa davvero se Borges stia parlando di qualcosa di reale o inventa mondi, libri, autori e scienze. Il secondo dei saggi proposti, La penultima versione della realtà, disserta del libro The Manhood of Humanity di Alfred Korzybski presentatogli da una pubblicazione di Francisco Luis Bernandez, letterato e amico di Borges sulla cui identità reale ho interrogato la rete dal momento che ero quasi convinto di essere entrato all’interno del consueto gioco di finzione. Nel dubbio mi offro con fiducia al suo gioco, quella che più avanti dirà essere «una forte parvenza di veracità, tale da produrre quella spontanea sospensione del dubbio, che costituisce, per Coleridge, la fiducia poetica» (L’arte narrativa e la magia). Non resisto molto però senza tornare a fare una verifica con Google. Il libro The Manhood of Humanity esiste e al tempo non era stato poi così sconosciuto. Come più avanti negli altri saggi mi trovo a constatare questa volta, o meglio, ancora per questa volta, Borges non ingannerà il lettore. E infatti lo troveremo a parlare tra le altre cose anche di cinema lasciandoci nella quiete rassicurante di “parlare la stessa lingua” proponendoci i nomi solidamente reali di Buster Keaton, Eisenstein, Charlie Chaplin e Greta Garbo.

Riportando la presentazione che Bernandez fa del libro di Alfred Korzybski, che Borges ammette di non conoscere, è da trattenere come interessante il tentativo di classificazione che l’autore, Korzybski in questo caso, fa degli esseri viventi secondo un concetto, certo rigido, di associazione delle tre dimensioni ai vegetali, agli animali e all’uomo rispettivamente con lunghezza, larghezza e profondità. Il vegetale vivrebbe essenzialmente verticalmente, in longitudine, alla ricerca della luce solare, l’animale in latitudine ammucchiando spazio per la ricerca di risorse mentre l’uomo vivrebbe in profondità facendo provvista di tempo. In quest’ultimo criterio classificatorio si trovano familiari molte delle letture sulla cultura ebraica con la sottolineatura della predominanza della dimensione del tempo su quella dello spazio. La bibliografia sul tema non sarebbe contenibile in poche pagine. Nella limitatezza si potrebbe invitare alla lettura di libri diversi tra loro editi da Giuntina come Roberto della Rocca, Con lo sguardo alla luna, Josef H. Yesushalmi, Zakhor e Bruno Zevi (a cura di Manuel Orazi), Ebraismo e architettura, dove il critico d’architettura individua un carattere ebraico dell’architettura legata al movimento, al tempo, anziché alla fissità statica di un’architettura “cristiana”. Quella di occupazione e vita nel tempo è una riflessione che si lega spesso alla storia post distruzione del Tempio che ha visto annullato il luogo centrale d’identità e culto ebraico portando alla grande costruzione di un edificio temporale dove proseguire la propria storia, religione secondo alcuni, o percorso identitario, secondo la definizione a cui è affezionato l’interprete biblico Haim Baharier, cammino limitato e particolare ma di portata umana universale perché, come dice Leo Strauss citato nell’introduzione a Zakhor di Harold Bloom è «come se il popolo ebraico fosse il popolo eletto almeno nel senso che la questione ebraica è il simbolo più evidente della questione umana in quanto questione sociale o politica.»

Mettendo da parte, a mo’ di appunto meritevole di essere ripreso seriamente in mano, perché altrimenti ora svieremmo troppo dalla strada (ma qual è la strada e quale il tema?) si prosegue nella lettura da lettore e non da critico. E’ rincuorante sentirsi legittimati in questa differenza (lettore-critico) come la segnala Borges ne La superstiziosa etica del lettore. Se da un lato infatti si è frastornati per la complessità del suo pensiero e la difficoltà nel seguirlo dall’altro si gode rasserenati per l’idea della scrittura che Borges stesso propone abbassandola da quella dell’idolo inarrivabile. Lo fa parlando di efficacia di un testo anziché di perfezione della forma. Chiama in causa un Cervantes, anche debole nello stile [sic], che permarrebbe nel suo valore anche se il suo testo venisse tradotto o venisse riformulato. 

Lo stato indigente delle nostre lettere, la loro incapacità di attrarre, hanno dato luogo a una superstizione dello stile, a una distratta lettura di attenzioni parziali. Coloro che sono affetti da tale superstizione intendono per stile non l’efficacia o l’inefficacia di una pagina, bensì le abilità apparente dello scrittore: i suoi paragoni, la sua acustica, gli episodi della sua punteggiatura e della sua sintassi.

[…]

Cioè, costoro non badano all’efficacia del meccanismo, ma alla disposizione delle sue parti. Subordinano l’emozione all’etica, o piuttosto a un’etichetta indiscussa.

Con la conseguenza che scompaiono i lettori perché tutti sono critici potenziali.

Ora, Borges non può essere tacciato di superficialità formale e dabbenaggine, ma realisticamente e con ironia afferma che un testo perfetto compete solo alla religione e alla stanchezza:

La pagina “perfetta”, la pagina in cui nessuna parola può essere alterata senza danno, è la più precaria di tutte. I mutamenti del linguaggio cancellano i sensi secondari e le sfumature; la pagina “perfetta” è quella appunto che poggia su tali delicati valori, quella che più facilmente si sciupa. Al contrario, la pagina che ha vocazione di immortalità può attraversare il fuoco dei refusi, delle versioni approssimative, delle letture distratte, delle incomprensioni, senza lasciare l’anima nella prova.

In queste poche righe il lettore di questi articoli spero colga anche una legittimazione dell’approssimativo sforzo di un semplice lettore, poco attrezzato, di poter addirittura scrivere.

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