Sta per chiudere a Forlì, presso il Museo Civico San Domenico, una grande mostra che ha avuto il merito di offrire un ampio sguardo sul mondo dei Preraffaeliti, confraternita d’artisti che in soli sei anni (1848-1854) scosse l’Inghilterra Vittoriana, o almeno la sua arte. Tempo brevissimo per l’arco della Storia, una fiammata. Una fiammata che evidentemente propaga ancora la sua luce. D’altra parte l’Inghilterra ci ha abituati a fenomeni decisivi in tempi concisi come fu per il solo decennio in cui Beatles stettero insieme.
La mostra di Forlì avvicina e tocca marginalmente anche figure di grande rilevanza, seppur non propriamente appartenenti alla confraternita, come William Morris che ai Preraffaeliti fu legato per rapporti personali, particolare fu quello con Dante Gabriel Rossetti, e per la volontà di ripensare l’arte ma soprattutto la società nel caso di Morris.
Un libro di qualche anno fa Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris (Einaudi, 2017), scritto da Antonia Susan Byatt, ci accompagna a continuare un viaggio stimolante dall’Inghilterra del tumulto della rivoluzione industriale al Mediterraneo, dalle saghe dei miti norreni, dai blu gelidi, ai turchesi e al mito antico. Questo viaggio che ci condurrà a Venezia in realtà non è un passare da sponda a sponda ma è un bagno in un mare alimentato da diversi rivoli che mescolano le correnti e le essenze dal momento che molti dei preraffaeliti vissero nel mito dell’Italia e si appassionarono anche a temi orientalistici. Biunivocamente possiamo sottolineare che Fortuny fu stregato dall’incontro con l’opera wagneriana.
Quelli dei pittori preraffaeliti furono sguardi al passato che seppero essere modernità, novità e superamento. La rottura del dettato accademico della confraternita contribuirà a liberare una pittura che poi potrà dirsi, qualche decennio dopo, in mille altre maniere: impressionistica, espressionistica, astratta… nostalgie apparenti foriere di un cammino originale. L’attenzione di Morris al medioevo alimentava invece una riflessione volta a rivoluzionare la società industriale e ad aprire a nuovi scenari artistici, un’arte socialista che rimettesse al centro l’uomo nella sua dignità e creatività. Venezia anche qui è maestra e specchio. Caso esemplare infatti è la Venezia del ‘500 dove i giovani innovatori guardavano all’antico, alle forme romane, ed il partito dei vecchi guardava al gotico, attuale e di tradizione, in un gioco di rivolgimento dei fronti che trova la storia sempre da ripensare.
Mariano Fortuny, o meglio Mariano Fortuny y Madrazo, non era veneziano. Volle farsi veneziano. Era d’altronde destino che egli arrivasse lì a lasciare un segno evidente della sua arte, attraverso la manifattura e la sua mirabile casa. Scelse dapprima un piano e poi conquistò tutto il palazzo di Ca’ Pesaro degli Orfei, in campo San Beneto. I suoi ambienti lasciano al visitatore uno straniante senso di meraviglia, non per la magnificenza opulenta (si pensi che la famiglia Pesaro si trasferì da quel pregevole palazzo a quello nuovo sul Canal Grande, quello sì maestoso) ma per il senso di un lavorio incessante che lì vi si è svolto. Si entra schiacciati dal candore del campo nel buio di un basso piano terra e poi per una stretta scala si sale al primo salone nobile passante da fronte a fronte accolti in una wunderkammer di oggetti d’arte e non di natura. Nel lunghissimo salone, meraviglia delle costruzioni veneziane leggere ed esili, c’è traccia di uno spirito orientale, forse già solo evocato dalla luce che giunge lontana schermata dall’elegante traforatura della facciata. Una luce che in Oriente è forte, così forte da richiedere la giusta distanza per trovarne sollievo. Ma dove non c’è una patina orientale a Venezia? La nostalgia e la raffinatezza di un Oriente reale o mitologico ci avvicina a Mariano Fortuny. La sua storia lo evoca. Nacque a Granada nel 1871. Si trasferì presto a Parigi ma comunque venne al mondo nella città testimone della più alta raffinatezza araba. Granada e l’Andalusia erano forse quello che a Occidente potrebbe essere l’equivalente del Giappone teorizzato da Kazuko Okakura, il punto finale di distillazione della sapienza asiatica. Granada è Al-Andalus, il regno per cui versò le lacrime all’esilio Boabdil, ultimo sultano di Granada, quando nel 1492 i re cattolici di Spagna espulsero i musulmani dalla penisola iberica. Ma Granada è anche Sefarad, la patria ingrata persa dopo secoli di ricca presenza per gli ebrei, nello stesso anno.
Granada, città delle delizie delle acque e del verde come nel giardino/salone d’inverno di palazzo Fortuny, uno degli ambienti dove si è invitati naturalmente a prendere posto a godere del bello nell’indolenza di comodi sofà e ottomane riccamente ornate dei tessuti di Damasco. Granada, cittadella scrigno come lo studio di Mariano, wunderkammer non dei prodigi di natura, come detto, ma della pazienza del genio e del suo lavorio che dal recupero della tradizione arrivava a concepire allestimenti teatrali, brevetti industriali, nuove tecniche fotografiche ed illuminotecniche relazionandosi alle grandi aziende avanguardistiche, per il tempo, come l’AEG. Palazzo Fortuny e lo studio di Mariano erano un laboratorio, una bottega, un reale luogo di lavoro e arte e non un tempietto ideale, o un gabinetto segreto, come lo studiolo di Federico di Montefeltro a Urbino o quello di Francesco I a Palazzo Vecchio, a Firenze. Era un luogo ordinato e metodico nelle sue scansie e scaffali, accogliente nei legni e nei colori illuminati dalla finestra che guarda a campo San Beneto, non l’ossessione asfittica per gli affastellati reperti di un John Soane a Londra, che pensava alla casa/accademia/museo/mausoleo già nel declino della morte (si veda, se lo si riesce a reperire John Soane, Per una storia della mia casa. Primo abbozzo, Sellerio, 2010). L’arte di Fortuny è forse una via ad una vita meno travagliata di Romanticismo e più modernamente epicurea.
L’articolo che avete finito di leggere idealmente si vorrebbe porre in dialogo con questi due apparsi sulla rivista Doppiozero:
Anna Toscano, Il rumore del genio, Mariano Fortuny
Maria Luisa Ghianda, Canali veneziani e prati inglesi
Foto: Massimo Listri





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