Continuo a non fidarmi di Borges. Faccio bene perché dietro il titolo da saggio della Storia universale dell’infamia – con la conseguente apparente pretesa di illustrare, approfondire e chiarire – c’è un esercizio di narrativa che non stravolge la realtà ma fa una realtà. Che altri non possano testimoniarla allo stesso modo non è un problema. Si fa cronaca qui? No. E’ Letteratura, bellezza!

Già nel primo racconto di questa serie di episodi con personaggi bruti e poco raccomandabili sono andato a cercare su Google se fosse esistito davvero il tale Lazarus Morell di cui si parla, con scarsi risultati. Ricercando in testa trovo però in questi giochi di biografie bizzarre le radici dei testi di Rodolfo Wilcock e ci metto poco, tornando in rete (basta leggersi la sinossi che propone Adelphi), a scoprire che il gioco della creazione di biografie infedeli e fantasiose è stato tratto dall’esempio ispiratore di Marcel Schwob con le sue Vite immaginarie (Adelphi). Borges ruba con genio.

Proseguo quindi la galleria di queste storie rimescolate, trasformate ed inventate dalla libertà del nostro, al quale non importa il reale ma solo che la letteratura/il testo, quel reale, funzioni (si veda il precedente articolo di questa serie), imbattendomi in un racconto di pirati cinesi avviato con una panoramica di altre vicende e leggende piratesche. Vi trovo citata la piratessa Anne Bonney (o Anne Bonny) e di colpo tra tanti nomi ignoti rinvenuti finora questo mi risulta familiare. Ricorro alla solita scorciatoia della rete per trovare conferma al fatto di averla sentita, dal momento che con i nomi sono pessimo, ed in effetti l’avevo incontrata in una serie televisiva di qualche anno fa: Black Sails. La serie televisiva ricostruisce, inventandolo, l’antefatto alla storia dell’Isola del tesoro di Stevenson. Siamo davvero dentro il labirinto di Borges e la realtà della letteratura che si ciba di letteratura perché ritroviamo Stevenson, uno degli autori prediletti dallo scrittore argentino, incrociato di nuovo attraverso un tragitto labirintico nell’intreccio tra cultura e media diversi (cultura alta e bassa forse, forse, si potrebbe dire). E’ davvero quindi da credere, soffermandosi sul senso di stupore e di divertimento di questi intrecci, che nella cecità matura, attesa, Borges trovasse sollievo e piacere nel ripercorrere intimamente le vecchie strade delle sue letture girando per nuovi incroci. Una sorta di “estasi illuminata dall’intelletto e del tutto concentrata sull’arte, un’emozione che le persone oggigiorno sembrano aver dimenticato da un pezzo“, rubando le parole alla novella La collezione invisibile di Stefan Zweig (Pagine d’arte, 2015).

Ce lo confessa nell’Elogio dell’ombra in una pseudo trascendenza del reale orientata all’eternità:

[…]

Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e somiglia all’eterno.

[…]

Delle generazioni di testi che ha la terra
non ne avrò letti che alcuni,
quelli che leggo ancora nel ricordo,
che rileggo e trasformo.
Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest
convergono le vie che han condotto
al mio centro segreto.

[…]

Torna interessante qui, rompendo come è già stato fatto una progressione lineare della lettura, riportare anche questa dichiarazione di Borges tratta da Conversazioni americane (Editori riuniti):

Sapevo che il mio destino sarebbe stato quello di leggere, di sognare, forse di scrivere, ma questo non è essenziale. E ho sempre pensato al paradiso come a una biblioteca, non come a un giardino. Significa che ho sempre sognato.

L’immagine del paradiso, della pace attiva, come biblioteca, o meglio di luogo del libro e dello studio, può essere arrivata parallelamente a Borges anche per il tramite di quel percorso di pensiero e di identità che si è la tradizione ebraica. Quel percorso che ha pensato a se stesso e all’umanità tutta nel sogno di Dio chiamata a vivere in un giardino e poi costretta ad uscirne nella peregrinazione. Nella tradizione ebraica, tra le mille storie che la colorano, ce n’è anche una di un vecchio, solo, all’interno di un’umile casa isolata intento a leggere un libro. Il vecchio è Rabbi Akiva, il più grande saggio della tradizione talmudica, passato a miglior vita. E’ in paradiso. E’ con la Torah, nella cui compagnia era sempre vissuto studiandola, commentandola e rivoltandola. Per una vita l’ha letta, ma ora è in paradiso: non la studia, finalmente la comprende!

In chiusura del volume ecco un altro tema già sentito. Nell’ultimo capitolo Eccetera si trova la ripresa di un racconto tratto dalle Mille e una notte, notte 351, dal titolo Storia di due che sognarono. L’ambientazione è orientale, ovviamente. I protagonisti sono un uomo del Cairo, Maghrebì, ed un capitano delle guardie di Ispahan (Isfahan), in Persia. La storia è semplice nella sua costruzione: Maghrebì in sogno vede un uomo che gli dice di andare ad Ispahan dove avrebbe trovato un tesoro ed il capitano delle guardie che intercetta l’egiziano arrivato in Persia risponde che lui, di contro, aveva sognato una casa al Cairo nel cui giardino avrebbe trovato un tesoro. Il capitano non diede credito a quella chiamata assurda. Maghrebì rientra al Cairo e trova il tesoro evocato nel sogno della guardia. La stessa identica vicenda la troviamo in Martin Buber, Il cammino dell’uomo (Qiqajon). Buber la fa risalire ad una tradizione chassidica con protagonista Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia, che viene invitato in sogno ad andare a Praga. Buber riconosce che la storia è antica e rinvenibile in molte tradizioni popolari ma la tradizione chassidica ne ha fatto oggetto di riflessione.

Niente di originale, ancora una volta. Ma, in fondo, importa davvero l’originalità a Borges?

(immagine generata con AI)

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