Riceviamo da Idolo Hoxhvogli un estratto dal suo ultimo libro La comunità dei viventi, Editrice Clinamen, 2023 e ne proponiamo al lettore a nostra volta una parte cogliendo l’occasione di stimolo che generosamente riceviamo trovando nelle parole dell’autore anche aspre e disturbanti dei pungoli.
La società nata dalla separazione tra uomo, mistero e natura è caratterizzata da una perfida uniformità, insegna l’arte di fare a meno dell’arte. Alla degradazione degli ideali corrisponde un’estensione del campo prescrittivo. È inutile adoperarsi per un mondo migliore, se il mondo migliore è somministrato dagli altri. Basta credere, al limite adeguarsi. Le buone maniere trasmettono il valore della rinuncia ai valori.
L’acquisizione dei diritti nasconde la pianificazione del desiderio, produce l’incapacità di riconoscere l’occasione della rivolta. La pedagogia, con la scusa di educare alla prudenza, spaventa l’infanzia. Il fondamento del viaggio sta nello sguardo itinerante. Fermarsi per chiedere permesso significa delegare al potere il giudizio, divenire gente vigliacca. La società permalosa movimenta il nulla: offesa dalla verità, la cancella, aggiorna il falso a immagine e somiglianza dell’ultimo partito.
Riprogrammare l’esistente e correggere l’umanità sono gli scopi della tecnocrazia: sviluppa protesi che rendono invalidi i viventi, organizza una festa, dittatura a sorpresa in cui le cose esprimono tutte la stessa tesi.
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La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le configurazioni fenomeniche degli edifici sono figure della possibilità. La costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la narratologia, l’ingegneria delle identità migranti.
La città è di Dio o dell’uomo, spiega Agostino d’Ippona nel De civitate Dei. Oggi quella dell’uomo è diventata la città della macchina. Ricoperta da materiali morti, nulla sembra sopravvivere al ritmo insostenibile che impone. L’individuo è metabolizzato, una quantità.
Chiedere diritti alla tecnocrazia significa ignorare che la macchina conosce solo compiti e funzioni. Nessuna città dell’uomo è capace di rovesciare la città della macchina, ne ha la forza ciò che, dentro l’uomo, abita la città di Dio, il dritto e il rovescio della stoffa edenica: speranza e nostalgia.





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