Una delle chiese più note di Venezia probabilmente è San Simeone Piccolo, la prima chiesa che si mostra al viaggiatore uscente dalla stazione ferroviaria di Santa Lucia, inquadrata in cinemascope dalla tettoia della stazione con l’alta cupola verde sull’orizzontale di fondamenta e Canale. Il tempio è visto da tutti ma visitato praticamente da nessuno. Una chiesa molto poco veneziana nello spirito, classica ma ben più tarda del Rinascimento veneziano scaturito dal Sacco di Roma (1527) che portò in laguna Jacopo Sansovino. E’ una fabbrica del settecento (1718-1738), periodo in cui la chincaglieria e il fasto della città era ormai arrivato ad essere parodia della sua storia, ultimo splendore prima che la Repubblica spirasse nel 1797. La Chiesa resiste per di più nella sua estraneità allo spirito originario veneziano ospitando la tradizionalista Fraternità Sacerdotale di San Pietro celebrante la messa tridentina in latino nella forma straordinaria del rito romano, antecedente alla riforma del Concilio Vaticano II. Esprime la radice più antica del cattolicesimo romano che certo stride col veneziano perché chi conosce la storia della città sa che ben prima di Zaia l’indipendenza da Roma era una realtà assodata (si ripercorra la vicenda di Paolo Sarpi o si vada a vedere dov’è sulla cartina l’antica cattedrale di San Pietro rispetto al cuore cittadino). Con il settecento, tempo del libertino Casanova e dei casini e ridotti di diletto un tempo letterario e culturale fattosi poi più sensuale, rimane in città un venatura di santità e peccato a cui niente sfugge. Persino la Chiesa San Simeone Piccolo resta lambita dalla perdizione. Fu retta per otto anni, fino al 2014, dal cappellano della Fraternità Konrad zu Löwenstein, severa figura perennemente definita dall’abito talare dell’antico curato, figlio di Robert Ludwig Ferdinand zu Löwenstein-Wertheim-Freudenberg, banchiere britannico-tedesco notissimo nel mondo dello spettacolo anche per essere stato il direttore finanziario dei Rolling Stones.
Lasciando stare il gossip e tornando a vedere i luoghi per quel che hanno da dire prendiamo nota di un altro primo accesso da terraferma che porta a scontrarsi con un grande pronao classicheggiante, e sempre settecentesco. Da piazzale Roma, lasciando il traffico su gomma, si supera Rio Novo, si passa per il filtro dei giardini di Papadopoli per poi arrivare attraverso un secondo ponte al campo dei Tolentini. Ci si impone di fronte un tempio (o meglio “pronao”) esastilo scenograficamente esposto in fondo al campo ma venezianamente irriso da un palazzo ampliato che va ad urtargli l’angolo sinistro (Avanti, c’è spazio! Avanti, dottò, che non tocca!). In origine la chiesa, San Nicola da Tolentino, aveva in progetto tutt’altra facciata. Vincenzo Scamozzi, allievo di Palladio, aveva seguito la via delle altre chiese/facciate palladiane della città ma dopo un secolo di facciata rimasta incompiuta sembrò inopportuno non “abbellire”.

Quarant’anni fa, nel 1984, realizzando per mano di Sergio Los un progetto di Carlo Scarpa, si concluse un’operazione simile, a pochi metri, presso lo stesso complesso monastico: la definizione ed il completamento di un ingresso, l’arricchimento di un filtro alla semplice entrata al convento dei Tolentini, sede dello IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia). La porta è un concetto immediato ma scomponibile attraverso il prisma delle nostre riflessioni, lo si vedrà. Se restiamo colpiti dal massiccio muro dell’ingresso dello IUAV, quasi un bastione col ponte levatoio al contrario, in alto a tettoia, e ci spingiamo ad attraversalo notiamo lo stravolgimento di una porta monumentale calata a terra. Soffermiamoci su quella porta prendendo stralci dal libro, esile ma denso, di Giorgio Agamben Quando la città brucia, Giometti & Antonello, dove nella seconda sezione il filosofo analizza il concetto di porta e soglia:
Nel progetto per l’ingresso nello IUAV che gli era stato affidato negli anni sessanta dal consiglio dell’Università e per il quale era stato chiesto di utilizzare una porta di pietra d’Istria ritrovata durante i lavori di restauro del Convento dei Tolentini, Carlo Scarpa decise di adagiare la porta al suolo e di immergerla nell’acqua. […] La collocazione orizzontale di una struttura per essenza verticale qual è una porta non può non essere stata attentamente meditata.
Segue uno sviluppo di un’analisi dei diversi significati del termine “porta”. Primo tra tutti l’opposizione tra la porta-apertura/adito/soglia e la porta-serramento che apre e chiude. La porta-soglia è attraversabile e la porta-serramento stabilisce la transitabilità, l’accesso, arrivando a farsi legge e addirittura legge “santa”, vieta o permette. Agamben illustra nell’atto progettuale poetico la rottura da Scarpa di questa ambivalenza:
La porta adagiata non è una porta-serramento e l’acqua che la ricopre significa che essa non potrà essere mai chiusa. (Del resto Venezia – di cui la porta di Scarpa è, forse, qualcosa come un’invocazione – non ha bisogno di porte: per entrarvi occorre attraversare una soglia, che è l’acqua della laguna, così come, per accedere alla porta sommersa, occorrerebbe mettere i piedi nell’acqua). Ma non è neppure una porta-soglia, dal momento che la collocazione orizzontale sembra esibire l’impossibilità di attraversarla. […] Se la porta non è un luogo, ma il passaggio tra due luoghi, qui sembra diventare essa stessa un luogo. […] L’adito è diventato un ambito.
E ancora oltre, superando anche il semplice essere un ambito, un luogo percorribile nel suo contorno, Agamben arriva a dire che quella porta posata in orizzontale è
l’evento di un fuori, che non è però un altro luogo, ma, come nella definizione kantiana della cosa in sé, uno spazio che deve restare assolutamente vuoto, una pura esteriorità. E’ questa pura esteriorità che la porta adagiata dello IUAV esprime perfettamente: l’ambito, di cui lo sguardo può percorrere i confini, è anche un’apertura, che non conduce in un nessun determinabile luogo, ma rivolta verso il cielo, dimora in un puro aver luogo, esibisce l’intima foraneità di ogni porta.
Il velo d’acqua, specchio d’acqua, nello spessore del portale è apertura al cielo, sì. Non si dimentichi che l’acqua è un’idea da sempre multiforme perché è mare di separazione e legame (Mediterraneo), è vita ma allo stesso tempo morte (Mar Rosso, il battesimo) e forse non è causale la possibilità di un rimando alle porte orizzontali che collegano vivi e morti di cui anche Agamben ci parla. E’ duplice da sempre, dall’origine della nostra cultura. Il libro della Genesi, Bereshit in ebraico, comincia nel suo celebre “In principio” con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico (bet). Inizia la sua narrazione con ciò che è duplice (e nel duplice si apre la possibilità di moltiplicazione) perché Uno solo è Altro. Pone l’acqua informe da dividere. Prima le acque in basso da quelle in alto, al di sopra del firmamento, e poi quelle in basso tra terra e mare perché comparisse l’asciutto. Quel velo d’acqua presso cui si sosta ai Tolentini si presta quindi alla meditazione infinita. Può turbare come il velo d’acqua del ruscello (ma qui l’acqua è ferma) che uccide Ophelia, e che tutti ricordiamo nel celebre quadro di John Everett Millais, ma può apparire vitale e dinamico come il labirintico movimento che Scarpa opera giocando con le acque presso la fondazione Querini Stampalia, libere di entrare nell’ingresso dal campo e delicate nel luogo di delizie del giardino dove risuona l’eco della sacralità giapponese nella natura. L’acqua del giardino scorre labirinticamente nel marmo, una vasca d’acqua riconcilia al cielo in uno striminzito fazzoletto di verde che è come il patio della poesia omonima di Borges ma anche la vasca-occhio che punta al cielo della fine del percorso del Guggenheim di New York (si veda il nostro articolo). Nel giardino l’acqua se non zampilla sfila esile e a sfioro, poco sotto il limite della pietra, sub limen.
[ Teniamo a freno le parole perché può cominciare qui un altro viaggio. Byron può portarci a est, oltre le terre della Sublime Porta, là dove i portali, gli iwan, sono soglie e luoghi e orientamento al cielo, confondibili con i mirhab indicanti la qibla.
Vediamo che tu volgi la faccia verso il cielo, ma ti doneremo ora una qibla che ti piacerà: volgi dunque il volto verso il Tempio Sacro, rivolgetevi tutti, ovunque siate verso quella direzione.
Versetto 144 della sura n.2 del Corano ]
Sublime come tutto ciò che nel vedere non ci appare immediatamente bello ma straniante e inafferrabile se non oltre i nostri banali sensi.






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