Arrivo in tarda mattinata, una mattinata particolarmente soleggiata per essere novembre, a Cesano Boscone, Milano. Vorrei con calma visitare e studiare la bella chiesa di Sant’Ireneo dell’architetto Mauro Galantino, scomparso prematuramente nel maggio del 2022. La cerco tra gli edifici a stecca tipici di una periferia urbana che si è dovuta velocemente urbanizzare e sui quali il Superbonus 110% è intervenuto rettificando ancora di più, se possibile, quelle vecchie scatole eliminando delle pur discutibili coloriture a onda con nuove linee squadrate.

Accedo alla piazza sopraelevata sul piano stradale del complesso parrocchiale deserta. Già il contorno del complesso comunica la qualità del progetto che nel trattamento del margine entra nell’ambigua dialettica di separazione e partecipazione. La chiesa e l’aula feriale sulla sinistra sono legate tra loro da un portico a “L” che filtra l’ingresso riecheggiando l’antica forma del nartece delle chiese dei primi secoli che a Milano trovano Sant’Ambrogio come modello. L’architetto Mauro Galantino ebbe a dire che l’uso del mattone per costruire lo spazio urbano era stato stimolato proprio dallo studio dell’antica chiesa del patrono, prima pietra della chiesa milanese. Personalmente ritengo che non potesse non aver messo gli occhi anche sul più recente esempio di Figini & Pollini per la chiesa di San Giovanni e Paolo. Entro in silenzio nel deserto del quartiere. Inizio ad osservarla con il solito religioso contegno capendo da subito che il tempo ha già fatto il suo corso. Non il tempo dell’edificio, invecchiato, ma il tempo di una comunità che la abita. Se fosse arrivato il famoso architetto caricaturale di Loos del Povero ricco avrebbe riempito un camioncino di cose da buttare in discarica. L’apparato iconografico (una serie di quadri neosurrealisti di un pittore del quartiere) e gli arredi, infatti, non sono certo quelli pensati dal progettista. Si coglie subito nel dissonante fonte battestimale che il progetto non è stato concluso, anche per motivi economici. Segno principale è la campitura azzurra sulla destra che resta orfana di qualcosa. Opposta campeggia la statua di una Madonna di produzione seriale. Si cammina lateralmente sul percorso di un deambulatorio che fa da ulteriore passaggio all’ampia sala liturgica. Il senso della dinamica è chiaro: dal nartece dei catecumeni, al fonte battesimale si entra nella strada verso la comunione con l’assemblea. L’altare non è imponente di fronte all’ingresso, ma un punto centrale al quale si converge e conviene. Un segno a terra al centro muove verso il presbiterio ma l’assialità nega una ferma simmetria. La rottura dell’esatta simmetria è segno di dinamica, movimento, vita. Il presbiterio gioca col posizionamento bilanciato degli elementi: la sede del celebrante, l’ambone, il tabernacolo e l’altare. L’altare non è più l’assoluto centro perché le mense sono due, quella eucaristica e quella della parola.
Fermo a rispettosa distanza dall’altare, al margine dell’assemblea, osservo la sala non notando una finta parete posticcia che fa da sfondo alla statua della Madonna con la mimetizzazione pittorica del calcestruzzo [un tempo si ricreavano le venature dei marmi!]. Sono solo dentro la chiesa quando si apre la porta ed entra rapidamente un’anziana piccola signora che si raccoglie brevemente con il segno della croce. Concluso l’inchino punta svelta nella mia direzione. E’ proprio me che cerca: “E’ mai entrato in questa chiesa? La conosce?” L’anziana sacrista di ritorno dall’ufficio della comunione ai malati mi vuol spiegare il significato di questi spazi mi invita a seguirla. Conosco già il progetto ma non mi sognerei mai di apparire sgarbato ad una persona che vedo orgogliosa della propria chiesa. Preferisco ascoltarla. Comincia la visita guidata riportando le idee dell’architetto. Premette che l’architetto ha voluto pensare all’edificio sacro muovendo dalla sua posizione di ateo. La sacrista nutre molti dubbi, sembra non volergli credere. “Chi ha pensato quello spazio così accogliente in realtà crede, è aperto alla trascendenza, a sua insaputa” sembro intuire nel suo pensiero. Non è banale un apprezzamento per una chiesa contemporanea che rompe schemi assodati, sobria e spoglia nel suo interno, da parte di una persona nata prima del Concilio vaticano II. La chiesa di Sant’Ireneo è profondamente moderna ma come ebbe modo di dire l’arcivescovo di Milano Martini il progetto era “molto antico e molto moderno”. Carlo Maria Martini era lo stesso cardinale che non faceva nette distinzioni tra credenti e non credenti, quanto piuttosto tra chi si interroga o meno. La prima cosa che mi fa notare la sacrista è che l’architetto, non credente, ripeto, se deve pensare a Dio non può non evocarlo nella natura. Allora ecco tre grandi quadri che caratterizzano l’aula: in alto a sinistra la luce, nella forma di una grande parete traforata che astrae un grande rosone, alle spalle del presbiterio l’acqua, nella forma di una vasca, a destra la terra, nella forma di un piccolo giardino degli ulivi. Passando oltre ai significati biblici, tre elementi sono evocati. E il quarto? Dov’è il fuoco? Sfugge alla spiegazione. Non può bastare l’esile fiammella presso il tabernacolo. Alzo gli occhi al soffitto traforato e, entrando nel pensiero della sacrista, mi dico: “Eccolo! Magari Galantino ho messo alla prova Dio. Gli ha lanciato la sfida dal momento che l’evocazione figurativa degli altri tre elementi era facile. Ora sarebbe stato compito di Dio far scendere le fiammelle dello Spirito Santo già scese sui discepoli a Pentecoste.” Vengo accompagnato alla cappella feriale, emozionante nell’ingresso scuro caratterizzato da un uso vigoroso del blu che cede poi il passo al rosso quando si arriva all’aula dove alcune statuette ricordano più un presepe che non un arredo liturgico. Al di là del simbolismo dei colori, sui quali si aprirebbe un ragionamento stimolante ma non univoco, sono lampanti gli insegnamenti del maestro Le Corbusier, il Le Corbusier de La Tourette. Sarebbe però da ritenere ispiratore forse maggiore Tadao Ando, al di là dell’uso figurativo del calcestruzzo che ne costituisce una firma. Entrando nella chiesa, ben prima di apprezzarne gli eleganti “semplici” nodi, si ha subito un’idea di astrazione. La ricerca di un Altrove non passa dal chiasso iconografico, dalla gara allo splendore, ma da una semplicità che aiuta a sviluppare attenzione e visione. Quello che Wright chiamava il “vangelo della semplificazione”che l’arte giapponese ci comunica qui sembra attuarsi. La semplicità dello sguardo orientale sulla divinità per tramite della natura: la prima cosa che mi diceva la sacrista, anche se con altre parole. Vuoto e natura. Far spazio all’inabitazione che in fondo è forse il primo mistero cristiano.
Aveva probabilmente ragione la sacrista: Mauro Galantino non avrebbe saputo recitare il Credo o il Padre Nostro ma sapeva guardare verso un Oltre.





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