E’ stato recentemente pubblicato dalla Casa Editrice Astrolabio Ubaldini il volume Le variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach a firma del musicista Peter Williams con la traduzione di Diego Procoli, musicista anch’egli e voce nota agli ascoltatori di Radio3. Il libro di Williams è un viatico prezioso per chi volesse percorrere queste trentuno composizioni (trentadue nel loro ordine ad esser precisi: l’aria, le trenta variazioni e la ripetizione dell’aria iniziale) per internarsi nel loro profondo. Questo non è certo il primo libro dedicato alle Variazioni Goldberg di Bach, notissime per fama e prese di tanto in tanto come “personaggio secondario” in letteratura (a riguardo avevamo già scritto qui), ma sicuramente non superfluo.

Merito del libro, si diceva, è condurre dentro l’opera, partendo dall’evidenza della bellezza scendendo poi nel suo profondo più faticosamente conoscibile. Due livelli. In queste poche righe attorno alla nota opera per clavicembalo a due manuali ci si vuole soffermare proprio sulla chiave del doppio. Se le Variazioni sono, come in genere lo è l’opera di Bach, magnifiche composizioni godibili senza ostacoli da tutti (a patto si abbia almeno un orecchio) nel di dentro celano però storie secondarie, enigmi e complessi giochi. Vi è il manifesto ed il nascosto. Se vogliamo chiamiamo quest’ultimo l’esoterico, il destinato agli iniziati, a chi ha compiuto un percorso e non tanto l’esoterismo cialtrone e stregonesco, l’occultismo. Bach aveva molta cura di questo livello di conoscenza, interdetto ai più (come d’altronde può esserlo anche la fisica quantistica, esoterica anch’essa nella sua “assurdità” controintuitiva). Si vada a recuperare in rete qualcosa che dice a riguardo Quirino Principe in una Lectio Magistralis presso il Teatro Franco Parenti di Milano del 2016.

L’opera è nella sua sintesi massima una serie di trenta variazioni musicali a partire da un’aria iniziale. Al primo ascolto l’aria rende giustizia alla spiegazione della genesi storica della composizione, ovvero che il conte Herman Carl von Keyserling, secondo la ricostruzione storica di Johann Nikolaus Forkel, primo biografo di Bach, avesse chiesto al Maestro di comporre dei pezzi da far suonare al giovane Johann Gottlieb Goldberg, musicista presso la sua piccola corte domestica, per alleviare la propria insonnia. Particolarità della composizione è che oggetto delle variazioni non è la melodia ma bensì il basso, ovvero non la parte più immediata per l’orecchio comune ma quella riconoscibile con molta attenzione solo da parte di un orecchio educato (l’essoterico e l’esoterico!). Ribadendo la duplicità si noti che la celebrità del nome delle composizioni è legata alla minuta statura, e nascosta immagine, dell’esecutore che, nel buio dell’anticamera di Keyserling, eseguiva lo spartito a consolazione delle faticose notti del conte. Non sappiamo se la musica fosse poi davvero riuscita a curare il malessere del conte ma per certo non tutta la composizione ha il carattere della ripetitiva melodia rilassante. Anche la vita onirica in fondo può avere una fase di bel brio e se veniamo introdotti all’ascolto da un’aria pacata e rasserenante troviamo nel procedere delle vorticose accelerazioni fino al Quodlibet dell’ultima variazione con un carattere festoso di scherzo. Come in un viaggio onirico dall’assopimento iniziale dei nervi veniamo rieccitati fino alla ripetizione finale dell’aria che ci rimette placidamente calmi e a riposo.

Più vicino al nostro tempo, quando ormai la questione dell’insonnia del conte Keyserling non è più un problema impellente, arriviamo ad un altro doppio: un esecutore notissimo diventato mitologico per i cultori delle Variazioni che, accantonando il clavicembalo e preferendo il pianoforte, consegnò al mondo, dopo una strabiliante esecuzione giovanile nel 1955, una registrazione memorabile nel 1981: Glenn Gould.

Nell’articolo all’inizio riportato di lui abbiamo già parlato. Al musicista canadese nella narrazione più nota si associa uno strumento eletto: il pianoforte Steinway CD-318. Un pianoforte simbionte dell’esecutore al cui rapporto Katie Hafner del New York Times ha dedicato il libro Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto, (Einaudi, 2009). Dietro la ricerca del pianoforte perfetto c’è però un’altra figura umbratile e meno nota come il giovane Godlberg: Verne Edquist. Edquist era l’accordatore della Steinway che seguiva Glenn Gould. Parte del fascino della sua storia è legata al fatto che Edquist, cieco, per una particolare forma di sinestesia riusciva ad ascoltare la musica attraverso i colori che percepiva dietro i suoi occhi. I suoni erano verdi, ocra, blu, turchesi… Ci dice ancora la Hafner che quando il CD-318 fu danneggiato e Gould decise di registrare la sua celebre esecuzione del 1981 con uno Yamaha Edquist rimase sbalordito perché scettico verso la tecnologia giapponese che sostituiva l’artigianalità Steinway con l’automazione. Ecco il paradosso: per l’esibizione epocale (anche se vera esibizione non fu)  al pianoforte amato quasi visceralmente fu preferito lo strumento più freddo.

In conclusione, dopo rapida e confusa chiacchiera attorno al capolavoro, rimandiamo al suo ascolto e al libro presentato, all’evidenza della bellezza che si manifesta e alla fatica di indagarla.

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