Dopo poche settimane siamo ancora tutti frastornati dall’arrivo, reale e tragicomico, della fantasia (o vanesìa se possiamo sostantivarla) al potere. Un profilo presidenziale americano allineato ai migliori modelli della parodia americana degli anni ’80 e ’90 di Leslie Nielsen e compagni ci fa preoccupare a momenti alterni senza davvero muoverci alla convinzione che in fondo il circo Barnum allestito allo Studio Ovale possa davvero presentarci i mostri promessi. Sempre parlando di spettacolo, qualche anno fa il presidente Trump era stato ritratto in un cartone animato (Rex. Un cucciolo a palazzo) in un incontro maldestro e restio all’educata etichetta richiesta di fronte alla Regina Elisabetta II a Buckingham Palace, in una scena di disappunto dei reali non così lontana dalla veridicità se si ricordano le immagini del G20 2009 quando Elisabetta fu stizzita dal rumoroso Berlusconi.

Mentre il primo ministro britannico Starmer si duole ora per una relazione speciale con gli Stati Uniti che va svanendo chissà come potrebbe comportare un prossimo incontro con Re Carlo. A noi va di immaginare che al di là della ruvidezza del presidente americano potranno trovare comune interesse questi capi di stato di origini tedesche: Carlo III di Windsor (fu Hannover) e Donald John Trump (fu Trumpf). Trump, l’architettonicamente bilingue costruttore di torri vetrate e cultore di un’estetica iperdecorativa – che più che neoclassica richiama lo stile Casamonica – condividerà con il monarca raffinato un bel dialogo sul bello che fu e che di nuovo sarà. Magari il vecchio immobiliarista non replicherà le più infauste parole sul Medio Oriente e la Striscia di Gaza da ricostruire come una riviera, riprendendo forse l’esempio del creatore della Costa Smeralda contemporaneamente scomparso, l’Aga Khan IV, imam dei musulmani Ismailiti Nizariti, elegante imprenditore, mecenate della tradizione architettonica islamica con la sua fondazione e lontano dallo stile cafone dei lontani cugini della penisola arabica. Il Presidente parlerà col Re forte della sua smodata passione per il classico che in America scorre carsicamente (da tornare a estrarre trivellando?) e deciso ad abolire per gli edifici federali questi stili moderni e brutali(sti) a favore dei bei tempi dorati andati e ritornanti nei desideri (again, again, again!). E il Re, amante anch’egli della nostalgica Gran Bretagna, annuirà. Trump riapre oggi, ma anche cinque anni fa, una polemica già aperta 1893 in occasione della Fiera Colombiana di Chicago tra gli eleganti Beaux-Arts della costa orientale, e di New York City in particolare, contro i rozzi e sporchi di fango colleghi di Chicago come Luis Sullivan ed il suo allievo, campagnolo del Wisconsin, Frank Lloyd Wright.

C’è da temere che a quest’incontro possa partecipare anche Léon Krier, consigliere architettonico del re ed artefice per l’ex Principe di Galles, in una sua proprietà agricola resa edificabile, della città di Poundbury: ventaglio di stili tradizionali e architetture vernacolari. Potrebbe accadere il misfatto: la vicinanza al potere, il Graal degli architetti, risveglierebbe sogni di grandezza. Chissà che Kriér che non completi quel percorso di riabilitazione artistica della retroguardia che già avviò su Albert Speer, architetto del Furher che in fondo faceva solo il suo lavoro obbedendo agli ordini dell’arte. Kriér nel 1985, esattamente quarant’anni fa, all’indomani, o quasi, del discorso del 1984 presso il Royal Institute of British Architects in cui Carlo si schierò per il ritorno alla tradizione nel costruire avversando l’architettura moderna, pubblicò una monografia sul decennio 1932-1942 di Speer rispondendo alla domanda se un criminale potesse essere anche un grande artista con un deciso sì. Abile come pochi Speer dalla sua liberazione nel 1966 si ricostruì una rispettabilità con libri ed interviste (nel 1977 lo intervistarono anche Francesco Dal Co e Sergio Polano) prima che le sue menzogne circa l’estraneità alla Shoah iniziarono a sgretolarsi. A riguardo il più fiero avversario della riabilitazione operata da Kriér fu il filosofo francese Miguel Abensour con un breve saggio edito in Italia da Jaca Book (Della compattezza. Architetture e totalitarismi, Jaca Book 2012). Non un architetto che lo affronti sul suo campo ma un pensatore che rimette ordine alle riflessioni dell’architetto. Abensour non lo bacchetta certo sul campo della liceità della scelta di uno stile classico ma bensì sulla presunta neutralità dell’architettura e sulla reale comprensione dell’architetto del vero pensiero di nomi evocati a sproposito (Hanna Arendt, in primis). Diciamolo chiaramente: gli architetti, nessuno escluso, quando prendono la penna sono gioiosi cialtroni. Abensour ce lo fa capire e virgolettiamo d’invenzione noi: “Quando un uomo con la matita incontra un uomo con la penna, l’uomo con la matita…”.

L’articolo è sintetico, una nota rapida perché tanto domani avremo da pensare ad altro. Se qualcuno si è appassionato tra i tanti collegamenti che ci vengono da segnalare ne riportiamo due: un’intervista recente a Leon Krier di Michele Masneri su Il Foglio e un rimando ad uno dei diversi dialoghi che Krier ha avuto con Peter Eisenman, quello che sull’architettura del Reich ha messo una, o meglio 2.711 pietre (e proprio a Berlino) sopra.

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