Scriviamo una breve nota accompagnando a parole altrui poche frasi, stimolati da un articolo apparso il 15 luglio (2025) su La Stampa. Si tratta di un’intervista di Christian Raimo a Carlo Ginzburg dal titolo: “La Storia a scuola è ridotta a un sermone identitario e provinciale”.
L’intervista riporta una visione critica delle nuove Indicazioni Nazionali per la scuola d’infanzia e primo ciclo stilate dal Ministero dell’Istruzione (e del Merito). Nel dialogo l’attenzione è focalizzata sull’insegnamento della Storia. E’ evidente a tutti quanto la Storia, l’orientamento della sua lettura, l’ottica con la quale la si osserva e indaga sia di fondo un territorio da sempre conteso tra orientamenti culturali (e ciò è un bene!). Meno rincuorante è vederla come campo di polemica politica dovendo riconoscere spesso che il tono del dibattito è poco edificante e spesso al limite del parodistico (a chi scrive spesso viene da interrogarsi sull’uso compulsivo delle parole “Nazione” e “Patria”, tra parentesi… le avevo già messe? Bene, non vorrei fare troppo clamore).
Ginzburg evidenzia una personale distanza in almeno un paio di punti, ovvero nell’idea dell’identità e nell’idea di una centralità culturale europea/occidentale:
Dire che “la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzitutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo”, senza precisare che oggi viviamo in un mondo in cui la centralità dell’Europa è completamente scomparsa, mi pare molto grave. […] è chiaro che le definizioni della Storia che vengono date non funzionano per capire il mondo in cui siamo.
[…]
Tutte le chiacchiere sull’identità italiana mi sembrano un caso di iperprovincialismo. […] Quanto all’identità nazionale, sono convinto che si tratti di una chiacchiera, politicamente pericolosa. Non credo nell’identità italiana. Non credo nell’identità europea. Non credo nell’identità ebraica. E via dicendo. L’Italia è un caso particolarmente significativo per criticarla perché è, credo, il Paese in cui l’elemento multipolare è presente a ogni livello: arte, cucina, lingua, in uno spazio piccolissimo.
A partire da questi due brevi passaggi invitiamo a prender parte al dialogo che Christian Raimo ha aperto con Carlo Ginzburg un altro interlocutore (oltre al lettore): Elias Canetti, anche lui ‘allergico’ ad un’identità nazionale. In Massa e potere ci offre alcune parole pertinenti:
I tentativi di conoscere a fondo le nazioni sono stati generalmente viziati da un difetto essenziale. Per l’elemento nazionale si voleva una pura e semplice definizione: una nazione – si diceva – è questo o quest’altro. […] Sempre risultava che si era afferrato qualcosa di vivo solo per il lembo di un abito occasionale;
Canetti seguirà poi cercando di sintetizzare il carattere di unità dei popoli attraverso i simboli (simboli di massa) che le nazioni individuano nelle rappresentazioni di se stesse. Per sommi capi l’idea di un gruppo fuso in una massa è l’idea attorno alla quale Canetti rifletterà nei circa quarant’anni di gestazione del suo strano saggio indagandone la dinamica storica, culturale e antropologica, comprendendone il fascino e al tempo stesso il legame pericoloso con il potere che è ciò che – la Storia vicina lo testimonia – pretende di unire, fondere, uniformare, controllare in un ordine asfittico annullando la metamorfosi del reale che è vita. Ginzburg diffida dall’identità cristallizzante, dalle monolitiche versioni di storie teleologicamente orientate e in ciò si pensi alla sua attenzione per la microstoria. Si può anche comprendere quanto la sua storia personale e familiare segnata dalle ferite del fascismo possa dar profondità e peso a questa sua diffidenza. Fascismo che cercò la ricerca fittizia di un’identità, come anche Canetti ci racconta, in difficoltà tra una prima Roma antica ed una seconda Cristiana. Una ricerca in seno ad un’identità già costruita nell’idea di liberazione da una presenza straniera opprimente che è il popolo nemico che “appare come il Numeroso, il Deforme, l’Odioso, come uno stormo di cavallette che si alimenti della terra buona e generosa dei nativi. E quando esso ha seria intenzione di rimanere, mostra la tendenza a dividere quella terra e a fiaccare i nativi, indebolendo in mille modi la loro reciproca unione. La reazione è allora l’unione segreta e in una serie di momenti felici la espulsione dei parassiti.” [ora il lettore rilegga più volte questo passo e cerchi di distinguere l’ideale risorgimentale dall’ideale della difesa dei confini e della nostra nazione che tanto ci preme oggi.]
E se di provincialismo (anzi iper-) parlava Ginzburg sentiamo ancora qualche parola di Canetti che comprende come nella nostra faticosa ricerca di un’identità facciamo, noi italiani, una grande confusione:
A questo proposito l’Italia può essere un esempio di quanto sia difficile per una nazione concepire se stessa quando le sue città sono popolate da grandi ricordi e il suo presente è volutamente confuso con tali ricordi. […] Il fascismo tentò la soluzione apparentemente più facile e si gettò nel costume genuino ed antico. Ma non gli stava affatto a pennello, era troppo largo, ed esso vi si agitava dentro con tale veemenza che lo ruppe tutto. I fori possono essere dissepolti, l’uno dopo l’altro: non si riempiono di romani.
Ecco: non si riempiono di romani! Il problema italiano è forse questo. Credere nella rendita o l’eredità di lontani zii. La rendita di chi non può vantarsi o credere che camminando per Firenze si fa Umanista, che se percorre Recanati ha nel sangue la poesia, che se vede l’acqua di Venezia può permettersi di agghindare casa col decadente mobilio che si dice essere ispirato all’età più dorata ma, ahimé, la più mestamente decadente della sua lunga storia, per credersi raffinato. Non li si ritrovano più questi maestri dell’arte, i geni ed i condottieri scavando sotto terra. E non si fa loro onore continuando a ripetere le frottole della gara alla classifica dei beni Unesco guadagnati o balzane percentuali di ipotetico patrimonio culturale dell’umanità conservato tra le Alpi ed il Mediterraneo.
In un altro passo dell’intervista Ginzburg parla senza approfondire del processo di secolarizzazione che implica ambiguità come “un’appropriazione in chiave non religiosa delle strategie usate dalle religioni e viceversa.” Stimolante questo rapido passaggio con la religione. Dando piena liceità al pensiero religioso in senso ampio che tiene insieme una sensibilità, un senso delle cose e della relazione col reale (fisico o metafisico), alla teologia, che come anche il nostro amato Borges diceva “è un ramo della letteratura fantastica” – se lo conosciamo un pò in ciò non c’è alcun intento spregiativo, anzi! – leghiamo la perdita di centralità europea di cui Ginzburg parlava ad una recente – sempre secondo il metro ecclesiale – riflessione in ambito cattolico. Da anni molti nella Chiesa Cattolica si riflette sulla perdita di una centralità storica, a tutti livelli, già con Benedetto XVI. La Chiesa non è più maggioranza e non è più potere predominante. Si aprono due visioni: quella della sciagura e quella dell’occasione. In Genesi ad Abramo si promette: “In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra.” Gesù inviterà ad essere sale, pizzico significativo in una massa più ampia. Se le giuste “strategie”, il fermento nel piccolo anziché la Reconquista, venissero attuate!





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