
Esiste un tabù nei confronti [di] Borges. Non ci piace vedere gli eroi giù dal piedistallo; in più, sul piedistallo stanno molto più comodi: non sono uomini come noi e per questo non possiamo né capirli né imitarli; li ammiriamo e basta. Almeno, questa è la tendenza che va per la maggiore in America Latina: in Europa, non si ergono più piedistalli e gli Stati Uniti si sono sempre compiaciuti nel mostrare l’umanità e le debolezze dei loro grandi uomini, come se questo li rendesse più forti.
Scrive così nel 1989 Estela Canto, scrittrice argentina che pubblicò a tre anni dalla morte di “Georgie” Borges un memoir che per la prima volta viene pubblicato in Italia dalle Edizioni Medhelan e che ci avvicina Jorge Luis Borges al di là del suo mito. Un libro che meritava di essere stampato anche prima in Italia, terra in cui il mito dello scrittore argentino sempre in odore di Nobel, ma ambiguamente schierato in politica, ha attecchito con forza anche per i progetti editoriali intrapresi con Franco Maria Ricci e la sua presenza nascosta ne Il nome della Rosa di Umberto Eco. Se è solo oggi che viene pubblicato ne deve essere comunque dato merito all’editore.
Estela Canto conobbe Borges a Buenos Aires nel 1944 frequentando la casa di Adolfo Bioy Casares e di sua moglie Silvina Ocampo. Casa all’angolo di Santa Fe e Ecuador nella quale Borges era presenza costante alle prese con i divertimenti ed il lavorio letterario col suo amico e collega Adolfo. In quel 1944 lo scrittore argentino ancora non era noto al grande pubblico ma ben apprezzato nel ristretto ambiente degli intellettuali. Lui aveva quarantacinque anni ed Estela Canto ventotto e rapidamente intrecciarono un intenso rapporto. Che si trattasse di una storia d’amore, di una vicinanza intellettuale, di un sostegno psicologico, di una comunanza di sentimenti ci resta difficile definirlo. Estela Canto parla di un’amicizia intima che li legarono per sette anni. L’avvio fu segnato dalle peggiori premesse:
Mi avevano detto che Borges non era esattamente un bel ragazzo, che non aveva nemmeno un bel fisico. Eppure quando lo vidi era peggio di quanto mi aspettassi. […] Fu quasi scortese e inaspettato. A quei tempi, davo per scontato che gli uomini dovessero rimanere impressionati da me.
Dopo un primo incontro freddo con una lunghissima passeggiata notturna all’uscita dalla casa di Bioy Casares iniziò la relazione. Una relazione difficile con un uomo che aveva scarsa considerazione delle donne.
Per lui erano «dee» fragili, deboli di intelletto, sensibili e limitate. Certamente una opinione poco originale da parte di un uomo originale.
E forse proprio per questo non era capace di una relazione reale e matura ma solo di una sua immagine forse letteraria e cavalleresca.
L’amore di Borges era romantico, esaltato, aveva una specie di purezza giovanile. In apparenza, si dava completamente, supplicando di un essere rifiutato, trasformando la donna in un idolo irraggiungibile a cui non osava aspirare. Non era sentimentale, ma poetico.

Estela Canto non ci accompagna solamente dentro la narrazione che, per quanto schietta avrebbe potuto anche essere morbosamente colorata, di una storia d’amore fragile ed impossibile a compiersi, segnata da un uomo impacciato cresciuto sotto la protezione ossessiva di una madre opprimente entro una cultura machista che lo segnò psicologicamente con un’avversione per il sesso. Ci aiuta a comprendere l’uomo dietro l’opera, il culto dei malviventi cuchilleros e la liberazione nella dimensione del fantastico. Ci svela le fonti di alcuni racconti che non sono partoriti dalla mente di un uomo al buio della propria stanza o dentro il buio dei propri occhi, come L’Aleph, ad esempio, che proprio a Estela venne dedicato. La fragilità umana dello scrittore non ne sminuisce la grandezza e chi, come noi, lo tiene ben in vista nel proprio Pantheon, dovrebbe leggere con rincuorante sorpresa che Borges era della nostra stessa specie, non un fenomeno come Funes el memorioso che, infatti, nella sua illimitata memoria non era capace di fantasia. Amava il cinema, non gradiva particolarmente la musica classica come quei molti che si sforzano di apprezzare per non apparire villani, e si muoveva con gusto arbitrario. Viene confutata la leggenda del Borges erudito universale. Secondo Estela Canto in sintesi:
Borges conosceva a fondo la poesia inglese e alcuni scrittori di prosa inglesi; gli interessava la Bibbia e la religione ebraica; non disdegnava quella musulmana. […] Nella letteratura, i suoi gusti prediligevano l’insolito, il raro, il nascosto.[…] Non c’è mai stato un critico più arbitrario. Aveva decretato che Joseph Conrad era il miglior romanziere del mondo, ma allo stesso tempo riconosceva di non essere un lettore di romanzi. Alcuni racconti lunghi (nouvelles) di Conrad lo avevano divertito e questo bastava. […]
Non era un erudito. Era un uomo dai gusti precisi, a volte irascibile, sempre originale.
Saltando altre considerazioni sulla letteratura francese, russa e tedesca conserviamo questi cenni per riguadagnare con lui forse quel gusto per una dimensione non falsamente universale della conoscenza che, questi tempi ce lo dicono, è immersione in contenuti frastornanti e superficialità.
Estela Canto non ha fatto un torto al suo caro amico a togliere l’alone del mito costruitosi attorno a Borges perché come egli stesso scrisse ne La superstiziosa etica del lettore in Discussione (1932)
La pagina “perfetta”, la pagina in cui nessuna parola può essere alterata senza danno, è la più precaria di tutte. I mutamenti del linguaggio cancellano i sensi secondari e le sfumature; la pagina “perfetta” è quella appunto che poggia su tali delicati valori, quella che più facilmente si sciupa. Al contrario, la pagina che ha vocazione di immortalità può attraversare il fuoco dei refusi, delle versioni approssimative, delle letture distratte, delle incomprensioni, senza lasciare l’anima nella prova.
Borges era autore non perfetto ma per questo reale e, per quanto alla sua morte avesse desiderato solo oblio, potrebbe ambire a vivere ancora a lungo.




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