Vite stravaganti di architetti – Il titolo del libro appena edito dalla casa editrice Giometti & Antonello invita alla lettura. Lo stravagante e l’eccentrico – non c’è scritto ma lo supponiamo – non possono non attrarre. Sventurata la professione che ha bisogno d’eroi, potremmo dire parafrasando Bertolt Brecht, per l’ennesima e noiosa volta, e l’architetto, sventurato davvero nella maggior parte dei casi, ha sempre bisogno di ambire al grande, al diverso, al nuovo, soprattutto quando la sua realtà è magra burocrazia. E allora legga, se può, questo libro. Magari sognerà i soldi di Philip Johnson, sognerà il successo dall’instabilità, forse il sole di Raphael Soriano da Rodi alla California… Ma tornando alla questione della novità la quarta di copertina è chiara: 

Ecco dunque quarantuno biografie di architetti che proprio nella divagazione e nell’ars combinatoria hanno trovato nel corso dei secoli le risorse per ideare e modulare concetti in grado di dare nuova vita all’antica arte dell’architettura, riconducendo la disciplina alla sua funzione essenziale di vettore della modernità.

Cos’è la modernità, infatti, se non il superamento, il cammino del nuovo, anche quando è rilettura del passato?

Prendiamo il libro in mano con la curiosità di riavvicinare il genere della biografia, in merito al quale ci istruisce brevemente l’autore nel prologo. Se avessimo avuto il dubbio di scoprire qualcosa di folle, o anche pruriginoso, subito ce lo togliamo. Ci vengono presentate piacevolmente, con il La sintetico di una epiteto, vite in movimento in poche righe. Manuel Orazi è uno studioso serio e non un Fabrizio Corona dell’architettura. Magari tra le figure più vicine alla falsa idea di storie ardite e folli possiamo leggere del Carlo Mollino dandy spiritista, cultore della fotografia erotica e architetto, a cui nel 2014 il regista Yuri Ancarani aveva dedicato il documentario Séance muovendo voci e spiriti nella sua casa museo (ecco un altro bel tema per doppiare il libro: Case stravaganti di architetti!). L’autore non cede alla tentazione dei toni morbosi da offrire al lettore voyeur, osservando ad esempio un decoroso silenzio sull’Adolf Loos autore di Nudità (sempre pubblicato da Giometti & Antonello) con i suoi scandalosi scheletri nell’armadio che lo avvicinano al ricercato architetto della borghesia newyorkese della Gilded Age Stanford White, escluso da questo novero e tema, questi, da vero noir. Se quindi si va alla ricerca di qualcosa di eclatante il libro è una delusione. Troviamo vite complesse, affascinanti ma non bizzarre. Ben lontane quindi dai personaggi che ci racconta Rodolfo J. Wilcock ne La sinagoga degli iconoclasti dove raccoglie la follia di invasati della propria disciplina, uomini abitati da un demone non tenuto a bada. Non troviamo neanche gli architetti de Le cronache di Bustos Domecq di Borges e Bioy Casares (di cui abbiamo già parlato). Dovrebbe esser chiaro, poi, che gli architetti di cui ci parla Orazi sono reali e che egli non abbia inventato nulla. L’articolo breve, il ritratto in poche battute, è un genere che chiede al lettore una grande fiducia nell’autore. Non c’è spazio per l’argomentazione, per il riferimento, la prova. Ci si deve affidare e lasciar condurre. Sospendere la domanda tipo: “Dove viene detto?”, o simili, per non rompere il gusto della lettura. Potrà venire poi il tempo della rilettura. Ogni architetto occupa poche pagine e riprenderle non costa fatica. Quella (la rilettura) può essere foriera di spunti, occasione per nuovi intrecci [divagazione e ars combinatoria si diceva in quarta di copertina] perché dietro la rapidità della scrittura di Orazi c’è anche una densità di fonti sottese e riferimenti da indagare.

Nel ripetere che il libro merita di essere letto vogliamo convincervi che questo non è un apprezzamento di maniera, di chi lo ha preso in simpatia sfogliandolo. Lo abbiamo letto con piacere e attenzione tanto da dire ai pochi che leggeranno queste righe, e tra questi forse ci saranno editore ed autore, che nelle pagine dedicate a Reyner Banham c’è un refuso (auguriamo al libro altre edizioni per correggerlo e grandissimo successo così da poter dire di possedere una copia pregiata al pari della moneta da 500 lire con le bandiere delle Caravelle al contrario del 1957).
Ora avremmo piacere di fare una sottolineatura particolare al libro. Nelle quarantuno vite c’è in trasparenza anche la vita dell’autore, al di là del prologo autobiografico. Forse la propria che riflette con le altre. Lo immaginiamo più che affermarlo. La biografia, l’esercizio di scrittura della vita, cerca di lasciar traccia di ciò che è più evanescente. Non è la critica di un’opera, che in architettura può avere lunga permanenza. E’ la storia di pochi, spesso troppo pochi, anni. Scrivendo di alcune figure troviamo chiaramente un affetto e coinvolgimento emotivo, la troviamo in Cohen, in Friedman e la troviamo nell’apertura e chiusura con Gino Giometti e Danni Antonello, prima citati nel prologo e poi nella foto con Italo Rota. Se in conclusione delle parole dedicate a Yona Friedman è riportato il verso di Avraham Ben-Yitzhak (il dottor Sonne per altri) “Beati coloro che seminano e non mietono” ricordiamo che quella poesia termina così:

Beati loro perché saranno raccolti nel cuore del mondo

coperti dal manto dell’oblio

e la parte loro riservata sarà il tamid senza parole.

Ristoro alla vita è il silenzio e l’oblio ma la biografia è quella scrittura che non se ne fa una ragione. Forse ancora più testardamente l’architetto che scrive si oppone a questa idea. Ha studiato per mettere in piedi mattoni ma non gli basta, deve cementarli, renderli più stabili (anche se sono di altri) con le parole. Georges Perec in Specie di spazi (uno dei classici libri degli architetti che vogliono dirsi lettori, insieme a Le città invisibili di Calvino) dice infatti che la scrittura è:

cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno.

Quando la casa editrice Giometti&Antonello cominciò la propria attività gli editori scrissero:

Proveremo a selezionare quei testi che, in tutta la tradizione scientifica e letteraria, trovano proprio oggi – e forse per la prima volta, e forse all’oscuro dei più – il loro momento privilegiato di leggibilità. Scritti che sfuggono di mano al loro autore, pagine postume, anche se “pubblicate in vita”, lettere e diari, “appunti sparsi e persi”, e tutti quei frammenti di scrittura che puntellano le rovine della moderna letteratura d’Occidente. 

In Vite stravaganti di architetti troviamo il caso strano di una cura ideale postuma di Gino Giometti. O meglio, un libro che l’editore avrebbe già inteso in nuce leggibile oggi. Una bella responsabilità per questo volume.

Ora, per evitare una mitologia del libro e una recensione che non si sognerebbero neanche in Corea del Nord confessiamo la previa grande simpatia per un libro che arriva dalla provincia. E nel dichiararlo ci viene il dubbio di aver forse intuito il significato del titolo solo ora: Manuel Orazi avrà voluto scrivere di vite stra-vaganti? A ben vedere ce ne sono di erranti, esploratori, viaggiatori, chi più chi meno. Anche nelle pagine in cui c’è la maceratesità al cubo (autore, editore, soggetto) con il ritratto di Ivo Pannaggi, artista tra l’Italia e la Norvegia (ma che avrà questa Norvegia per attirare i marchigiani come fece anche con il poeta-operaio Luigi di Ruscio?), rientrato maturo dal Nord nella sua Via Crescimbeni della fu Trattoria da Ezio.

Non avremmo voluto ma l’autore, anche lui fieramente rientrato all’ovile marchigiano, ci evoca, e obbliga a ripetere, le parole dell’ironicamente mesto Ennio Flaiano che più o meno scriveva che c’è gente, anche molta, che vive, lavora, legge libri e li pubblica pure a Macerata.

Una replica a “Manuel Orazi, Vite stravaganti di architetti.”

  1. […] a ruota una delle nostre precedenti letture (Manuel Orazi, Vite stravaganti di architetti) abbiamo apprezzato Leggere l’architettura, scrivere la storia. Intervista a Giorgio […]

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